Estasi
Cronache di Meravigliosi Momenti giovanili. Quando si aveva il lusso di sprecare il tempo, perdersi nel cazzeggio, auto-dissiparsi sognando un futuro radioso
Che diavolo ci facevo alle 4 di mattina sdraiata vicino ad un cassonetto puzzolente? Non avrei mai dovuto ridurmi in quelle condizioni. E’ che confidavo troppo nella resistenza del mio fisico! Ma anche lui qualche volta cedeva. Povero fegato! Lo sentivo urlare vendetta. Per non parlare della testa: in fondo, era lei in quel momento a preoccuparmi di più. I pochi neuroni svegli stavano ballando il tip-tap, mentre le sinapsi avevano alzato bandiera bianca. Già immaginavo i titoli sui giornali: “Giovane donna trovata morta vicino all’immondizia”, oppure “Il sabato sera miete nuove vittime” o peggio ancora “Gioventù bruciata: drogata muore sul marciapiede”.
Che bastardi questi giornalisti! Ci vanno giù pesante, senza avere alcuno scrupolo per chi resta. Chissà che dispiacere per i miei genitori! La figlia 110 e lode, quella di cui vantarsi con parenti e amici crepa vicino a un cassonetto. Oltre al dolore c’è anche la vergogna. Come spiegare agli altri l’accaduto? No! Questa era la prima ragione per resistere: il buon nome della famiglia! Dovevo farcela! Anche se avevo il cervello fuori uso, le gambe piegate e lo stomaco accartocciato. Basta respirare, mi dissi, una boccata d’aria dietro l’altra e la concentrazione. La vita è solo una questione di volontà. Vivere è un atto di volontà e così anche morire. Ma vogliamo parlare di quanto sia bello cedere? L’eterno dilemma tra il resistere e il lasciarsi andare. Mollare la presa.
“E’ morto perché si era stancato di vivere”: quante volte avevo ascoltato questa frase. Ecco, per l’appunto, io non mi ero affatto stancata e quel terribile cedimento mi riaffermava un concetto fondamentale: ero troppo giovane e di talento per morire. Quante cose dovevo ancora vedere! Quanti schiaffi ancora dovevo prendere! E poi morire in quel modo era proprio da stronzi! Non che ci siano bei modi per morire, ma così, vicino a un cassonetto situato fuori ad un becero locale di periferia, era troppo di cattivo gusto. Andava contro il mio senso estetico. Chissà quanti amanti della cronaca nera si sarebbero masturbati, l’indomani mattina, leggendo la notizia sul giornale. Sarebbe stata proprio una beffa per me, che fin da piccola avevo talmente in odio i presenzialisti da funerale da desiderare di non avere cartelloni mortuari.
Si! Ecco un altro motivo per resistere. Una questione di coerenza verso la propria natura, verso le proprie idee. Mi slacciai la giacca per far circolare meglio l’aria. Ah! Una bella boccata d’aria fresca e mi riprendo. Ma che cazzo di freddo faceva! Era, infatti, inverno. Uno dei più rigidi da alcuni anni a quella parte. Eppure che sollievo quel vento gelido! Come quando in estate ti senti svenire e metti i polsi sotto l’acqua ghiacciata. Così anche i miei neuroni ululanti, piano, piano andavano riprendendosi. E mi veniva da ripensare alla giornata trascorsa. Maledetta giornata! Quante pugni in testa avevo preso! Erano state le percosse a ridurmi così? Doveva, forse, finire così la mia giovane vita? Non potevo crederci! Altro che ampliamento della coscienza! Altro che illuminazione! Altro che pejote, quella si che era una pigna! Percepivo un tale senso di liquefazione che era come se tutte le mie membra andassero dissolvendosi. In tali momenti, arrendersi è quasi più facile che lottare. E’ come se si andasse incontro a qualcosa d’ineluttabile, di già scritto. Un senso di assorbimento da materasso e letto sudario, alla fine di una durissima giornata. Era stata già così stancante la mia vita?
I
Un cane, un bastardo abbandonato, mi si avvicinò complice, guardandomi con due occhioni fissi, comprensivi. Erano quelle le tanto decantate affinità elettive? Rassicurata dalla leccata rasposa, quanto insistente, cercai di rievocare i fatti salienti della giornata, cercando una ragione divina alle mie peripezie. E subito mi venne in mente il famoso detto popolare, uno di quei detti che genitori e parenti usano per costringerti al sacrificio quotidiano. Uno di quei detti che continuerà a risuonarti nelle orecchie per tutta la vita, come una iattura: “Il buon giorno si vede dal mattino”. Tra me e mio fratello Nicola c’era un patto segreto. Non c’era stato bisogno di scriverlo. Era un patto importantissimo, basato su un unico principio: “Chi si alza prima, porta il caffè all’altro”. Nelle nostre vite da sbandati senza principi e senza certezze, sapevamo di non poter violare questo patto. Consideravamo la bugia una forma di delicatezza verso il prossimo, l’incoerenza necessaria all’evoluzione e la pigrizia l’unica condizione necessaria per vivere, ma soltanto su una cosa eravamo prussiani: “Chi si alza prima, porta il caffè all’altro”. E guai a eludere! Erano ormai mesi che andavamo avanti così, a cercare di resistere nei nostri letti sfatti, aspettando che l’altro cedesse. Bisogna dire che io ero campionessa di resistenza. Rimanevo nel letto, come una morta, ad aspettare. Sembravo morta, ma tendevo l’orecchio. In verità, diventavo un enorme orecchio teso verso il muro. E pur nel sordo dormiveglia della coscienza, registravo ogni minimo movimento proveniente dall’altra stanza.
Ecco adesso si è mosso. Ora si rigira nel letto. Altri pochi minuti e si alza e allora potrò trasformarmi da orecchio in gola, un’enorme gola che urla CAAAFFEEEE’, un’enorme gola che trangugia caffè. Bastava soltanto il tocco di quel piede, il piede sudato della notte sul pavimento freddo, per farmi urlare: “CAFFE!'”. Senza il caffè a letto, la giornata non poteva iniziare. Come quando, da bambina, attendevo sotto le coperte il caffè diluito con l’acqua, che mi portava mio padre ed ero tanto ingorda da volere il bis. Sempre il bis e qualche volta anche il tris. Il “buongiorno si vede dal mattino”: anche in quel caso, il mattino della mia infanzia lasciava presagire di peggio. Il caffè era forse stata la mia prima fissa? O meglio la mia prima droga? Il primo sentore del gene pazzo degli psicodeboli? Forse si! Chi può dire di no? Una volta, avrò avuto tre anni, mi cappottai dal letto, in preda alle convulsioni, perché non vedevo nessuno all’orizzonte. Nessuno che portasse la tazzina calda. Il caffe.’ In principio, era l’odore, quell’inconfondibile aroma che dalla cucina si spandeva per la casa. Poi, si manifestava attraverso il rumore del cucchiaino dentro la tazzina. Lo sbattere metallico del cucchiaino dentro la tazzina di ceramica: erano questi i primi desideri erotici della mia infanzia. Non ero cambiata di molto da allora, se ancora attendevo chi mi portasse il caffè a letto. Nella tragedia della vita, aspettavo un “deus ex machina” con la tazzina calda in mano. Quel dio l’avevo trovato: era mio fratello. Mio fratello Nicola, l’unico a essere tanto saggio e tanto pazzo da poter condividere le mie follie. Altro che condividerle! Era talmente intelligente da personalizzarle.
“L’unico momento in cui non ho sensi di colpa è quando mi trovo seduto sulla tazza del cesso. So di espletare una funzione vitale e tanto mi basta. Ce ne fossero di altre evacuazioni durante la giornata! Sarei più a posto con la coscienza”: questo soleva ripetere mio fratello, giustificando il suo travaglio interiore e posteriore. Una sofferenza che gli impediva di vivere, di agire. Poteva soltanto defecare. Mio fratello mitizzava la tazza come io idolatravo la tazzina. C’era però tra noi un rapporto talmente simbiotico che anch’io finì per amare il gabinetto di riflesso, così come lui s’infatuò dell’insana abitudine del caffè a letto. Debbo però dire, a onor di chiarezza, che mio fratello amava talmente le funzioni anali da aver scritto un'”Ode al Water”, un componimento poetico che, dalle maioliche del bagno, ammiccava ai malcapitati, soprattutto gli uomini, che hanno la prerogativa di orinare all’impiedi. Quanti con il pene nella mano destra e gli occhi fissi in avanti si erano intrigati nel leggere quei versi che iniziavano con queste esatte parole: “Sopporta impassibile l’insulto, per tutti noi è oggetto di raro culto……”. E così avevo finito per condividere con il poeta water quella filosofia di pensiero. La vita è talmente dura che si cercano sempre delle ragioni per vivere. Può sembrare dissacratorio, ma in quel periodo trascorsi molte ore seduta sulla tazza del cesso, credendo nei suoi poteri purificatori. Certe volte ci rimanevo talmente tanto da avvertire un formicolio alle gambe. Quel tipico fastidio che proviamo quando gli arti si addormentano. Tazza e tazzina: queste erano le basi del nostro pensiero.
Anche quella mattina si attendeva. Mio fratello attendeva me e io lui. Proprio quella mattina aveva deciso di resistere. Lo immaginavo sghignazzante nel letto: sapeva che prima o poi avrei ceduto. Si stava facendo tardi e il dovere del lavoro si faceva via, via sempre più prepotente. Eppure, nonostante l’ora, non riuscivo ad avere lo scatto di reni. Quando si dice la dipendenza! A un certo punto, l’intensità della luce del sole richiamò la mia attenzione. Era già mattino inoltrato e il sole alto nel cielo, assoluto e improrogabile, mi richiamava al sacrificio quotidiano, quello necessario all’umano sostentamento. Era però il periodo in cui rifiutavo gli orologi, le sveglie e ogni forma di segnalazione e frazionamento del tempo. Potevo recarmi tardi a lavoro e mi piaceva poltrire nel letto fino all’ultimo momento. In realtà, vaghi sensi di colpa si andavano insinuando nella mia coscienza di bradipo. Quante cose avrei potuto fare nell’arco della mattinata? Questo mi dicevo ogni giorno, rimandando l’atto di volontà al giorno successivo. Una posticipazione continua e inossidabile la mia. Non fare mai oggi quello che si può fare domani. Soffrivo per la debolezza della mia volontà e questa sofferenza gravava sulla mia povera testa, già costipata da idee e progetti. C’era alla base anche una certa ambizione, condita di presunzione. Ma erano tutti propositi che rimanevano allo stato embrionale: aborti predestinati; azioni sconfessate all’istante che mi prostravano l’animo. Perché non agivo? Me lo chiedevo ogni giorno. Soprattutto quando notavo che le continue masturbazioni mentali avevano amplificato le mie capacità. Leggevo e scrivevo con celerità: l’unico problema era la mancanza di applicazione. E l’immenso amore per il cazzeggio e la bella vita. “Suo figlio non si applica, può fare di più”: questo dicono spesso gli insegnanti a quei genitori convinti di avere un genio in famiglia. Lo dicono per non deluderli, perché non fa piacere sapere che hai cresciuto una “zappa”. E i genitori ci credono, perché passano la vita a illudersi che i loro figli sono speciali. Se si fa così con gli animali, figuriamoci con gli umani, sangue del nostro sangue! Questo non era però il mio caso. Per i miei genitori, noi figli siamo sempre stati i peggiori. Precoce e diligente, avevo trascorso la mia infanzia con grande serietà. Credevo ciecamente nelle istituzioni: per prime, la scuola e la famiglia. A scuola ero voluta andare a quattro anni, già consapevole dell’importanza dell’apprendimento. Sentivo, inoltre, il “dovere di essere brava” per non deludere genitori così critici ed esigenti e anche perché mi ero ritagliato quel personaggio. La bravura mi faceva porre su un gradino più alto rispetto agli altri fratelli, discretamente ciucci, ampliando i miei spazi di libertà. In poche parole, a me era lecito più che a loro. O almeno così pensavo! Ma che grandissimo sacrificio….che fatica mantenere la parte quando si è balordi nel profondo! Quell’auto-repressione aveva forse posto le basi al futuro svaccamento? Anche questo mi chiedevo mentre, girandomi nel giaciglio disfatto, attendevo segnali di vita dalla stanza di mio fratello. Eppure sapevo che anche lui attendeva, avvolto nelle coperte come un involtino “Primavera”. Alla fine dovetti alzarmi: era tardissimo. Non potevo perdere neanche un minuto. In punta di piedi mi recai in cucina; nella caffettiera c’era un residuo di caffè del giorno prima. Decisi di riscaldarlo, ma era poco. Intanto Nicola, che aveva colto i miei spostamenti, gridava “caffè'” dalla sua microscopica stanza tumulo. “Caffè, portami il caffè”: continuava a gridare. E io, con un morso alla gola, risposi lapidaria: “Caffè’? Non c’è ne”. Poi, bevvi con gusto il liquido nero. Nicola si era alzato e, acquattato nel corridoio, ascoltava i gorgoglii della mia gola gaudente. E fu che così che spuntò in bagno, rapido come un furetto, per punirmi. In principio fu il calcio, una pedata fortissima assestata sul culo, tanto forte da farmi sbattere la testa sullo specchio. Poi fu il verbo: “Vai a farti fottere, brutta stronza!”. Incredula e dolorante mi girai e lo vidi, scalzo e in mutande, fumante di rabbia di fronte a me.
– Sei un’infame – disse – hai rotto il patto. Sono settimane che ti porto il caffè a letto. Adesso toccava a te. Io, il patto l’ho sempre rispettato.
– Ma era troppo tardi. Non avevo il tempo di rifare il caffè – risposi per difendermi, mentre i sensi di colpa mi comprimevano lo stomaco.
– Si! Ma tu il caffè l’hai bevuto. Ti ho sentito, sai. Stavo nascosto dietro la porta e ho sentito “glu – glu – glu”.
– Si! E’ vero. Ma era il caffè riscaldato. Era pochissimo, appena un dito e faceva pure schifo – conclusi, scoppiando a piangere.
Ero davvero dispiaciuta per quello che era successo. Violare un patto cosi! Uno dei pochi punti fermi che avevamo! Poi, sempre piangendo, imboccai la porta per raggiungere al più presto la fermata d’autobus. Piangevo ancora, mentre percorrevo il tratto di strada alberato che mi portava alla stazione. La commozione mi comprimeva il petto, ma non avevo ancora capito il reale motivo di tanta lacrimazione. Era la rottura del patto a farmi soffrire oppure il culo dolorante? O più semplicemente piangevo di rabbia per la mia inezia distruttiva. La verità è che sentivo incombere su di me la cosiddetta “finaccia”, l’immagine apocalittica che alle soglie della maturità prende il posto di tutte le figure spaventevoli della nostra esistenza e le somma tutte, accompagnandoci fino alla bara. Secondo me, non è vero che in punto di morte riviviamo in pochi secondi tutta la nostra vita; in realtà, rivediamo tutte le cazzate che ci hanno inculcato per metterci spavento, partendo dal gatto mammone, passando attraverso la cecità dei masturbatori incalliti, fino ad arrivare alla “finaccia”, la rosea prospettiva che viene intimata a quanti non pensano per tempo alla pensione e al mutuo. Pensavo tutto questo mentre mi dirigevo al capolinea del 62. Ed ero talmente indaffarata nei miei pensieri che mi ritrovai sull’autobus, quasi senza accorgermene. C’era da aspettare qualche minuto prima della partenza, quando a un certo punto mi girai a guardare dal finestrino, come richiamata da una forza strana. Mi girai e vidi mio fratello che correva. Mio fratello correva verso di me. Ne compresi all’istante il motivo. Scesi dal mezzo per andargli incontro. Fu di poche, ma sincere parole.
– Scusa – mi disse – non volevo farti male.
– Ti ho già perdonato – risposi – avevi ragione.
Poi, i rumori si accesero, rompendo l’emozione della riappacificazione. Era tempo di andare. Continuavo a essere commossa. Adesso forse un po’ di più.
II
Al lavoro ricominciò la quotidiana fatica di Sisifo. In che cosa consisteva il mio pietrone? Dovevo organizzare il Giornale dei Comuni. Ogni giorno a caccia di notizie da inserire sul terminale: comunicati stampa; decreti legge tratti dall’orrenda gazzetta ufficiale e fonti di terza e quarta mano. Ero responsabile del servizio, anzi dovrei precisare “responsabile unica” che in poche parole vuol dire “generale senza soldati”. Quando mi chiedevano che lavoro facessi, non riuscivo a spiegarmi con chiarezza, per onestà intellettuale. Avrei dovuto dire semplicemente redattrice, ma non ci riuscivo. Lo so. Non ditemi nulla. So che in quest’epoca del terziario disavanzato qualsiasi scribacchino di terz’ordine si definisce giornalista, come si definiscono manager la maggior parte degli impiegati d’azienda, decisionisti da organigramma. Le loro decisioni valgono quanto il dito dell’operaio della catena di montaggio che pigia sul bottone. O forse anche meno, perché sono teste di legno, prestate dalla politica per avallare ogni nefandezza.
Lo so tutto questo. E non mi va di mentire. In quel periodo non mi andava di essere consolata con un grado da caporal maggiore. Per questo motivo, quando mi chiedevano cosa esattamente facessi, non riuscivo a spiegarmi bene. Anche perché Internet non esisteva ancora e il giornalismo on line era cosa rara. E così mi perdevo in dettagli irrilevanti, fino a confondere l’interlocutore. Anche i miei genitori non capivano e mi dicevano “trovati un posticino sicuro”.
Il lavoro? Brutta bestia. Eppure quel posto me l’ero costruito con folle determinazione e per alcuni anni me l’ero spassata. Avevo goduto totalmente della libertà che quel tipo di lavoro era in grado di offrirmi. Azienda di servizi appena nata, non dovevo timbrare cartellini. Potevo organizzarmi il lavoro a mio piacimento e soprattutto l’ufficio si trovava in pieno Centro Storico. Mi ero distaccata senza alcun trauma dall’azienda madre che, ingranditasi in pochissimi anni, aveva dovuto affittare un grande palazzo sulla Tuscolana, per accogliere tutti i nuovi assunti.
In Tuscolana ero durata poco. E ora ero ospite del nostro maggiore azionista.
Avevo una stanza buia, posizionata alla fine di un enorme labirinto, polveroso ed obsoleto. Mi trovavo ai piani bassissimi, quelli in cui venivano relegati i funzionari più impopolari, quando cambiava il Governo. Una specie di quadriglia turn over, ma tutto rimaneva uguale. Governo e opposizione, rappresentati dai suddetti funzionari, in realtà, andavano d’accordissimo. Fingevano di litigare, ma poi li trovavi attovagliati a ridere e scherzare in qualche ristorante del centro storico. Il problema era solo di posizione. Stare ai piani alti, faceva status. Profumava di potere.
Io non capivo, ma mi trovavo benissimo. Assistevo comunque incredula ai periodici turbamenti interni dell’Associazione. Un certo immobilismo da Prima Repubblica era in ogni caso rassicurante. Lì dentro il cambiamento era legato soltanto alla poltrona o meglio al piano in cui quella poltrona si trovava. Ho visto gente disperata per essere stata catapultata repentinamente dal Paradiso dei piani alti, con soffitti a cassettoni istoriati, agli infernali corridoi dei piani bassi, cunicoli bui e grigi.
I primi periodi in centro storico furono belli. Il distacco dalla casa madre mi riempiva di gioia. Ero finalmente libera o meglio liberata dal finto dinamismo aziendale. Il manager e la celerità degli arti inferiori: questo si che era un tema da sviluppare e lo sarebbe stato ancora di più negli anni futuri! Ma il sangue arrivava in quei cervelletti privi di astrazione? Lesti di gamba e corti di materia grigia: così mi sembravano gli arrampicatori del vertice aziendale.
La nostra era poi una strana azienda. In pochi lo avevano capito. Un’impresa di stampo stalinista. Tutti noi impiegati, a partire dall’usciere fino ad arrivare al top-manager eravamo mobili al servizio dell’unico “motore immobile”, il grandissimo capo, nonche’ padre Andrea Papadio.
Odiato, temuto, amato, ammirato, il nostro capo era un soggetto quanto mai singolare, talmente geniale da risultare un esemplare unico di idiota sapiente o meglio di pazzo integrato. L’azienda era il suo gioco e noi le sue creature, vere e proprie pedine da poter muovere a suo piacimento. Ogni tre o quattro mesi dovevamo cambiare posizione e ruolo. E il cambiamento non voleva dire migliorare, perché la continua alternanza frustrava ogni ambizione di carriera. Potevi salire, come scendere e molto dipendeva dagli umori dell’amministratore delegato, dai suoi odi, dalle sue momentanee simpatie.
L’usciere Gino, ad esempio, lo aveva talmente intenerito con il suo caso umano di autentico “impasticcato” che in poco tempo era passato dalla stanza centralino ai piani alti . E Gino gli era talmente riconoscente che ormai si considerava il suo alter-ego. Spendeva quasi tutto il suo stipendio dal sarto per imitare i vestiti del dottor Papadio. Non si risparmiava neanche il sigaro per essere più somigliante. Si permise di entrare nella stanza del capo e rispondere al telefono al suo posto. Quando la situazione divenne imbarazzante per tutti e due, anche perché finirono per assomigliare sempre più ai blues brothers, Gino fu rimandato di corsa ai piani bassi. E del suo caso umano non si parlò più.
Viceversa, il dott.Ugo Fagiolo assunto come Vice amministratore delegato in un anno fu via, via degradato. Ogni mese scendeva di un piano. Alla fine era talmente sceso, che l’unica alternativa rimasta sarebbe stata quella di scavargli una fossa ai piedi del palazzo-azienda. Poi il dott.Papadio ebbe un lampo di genio: decise di ricavargli una stanza solitaria nel sottoscala vicino alla macchinetta del caffè. Considerato poi che era fumatore, pensò di avergli fatto un gran favore, perchè è noto a tutti che il caffè chiama sigaretta. Fu l’unico, in azienda, a godere di quel privilegio. Dopo alcuni mesi dovette operarsi di urgenza al fegato.
Queste erano le decisioni irrevocabili dell’amministratore delegato Andrea Papadio. Questa era la sua gestione aziendale. E guai a criticare: si rischiava la defenestrazione.
Eppure ce ne fossero oggi di personaggi così eterodossi. Si è perso lo stampo.
Parlare con il capo, quando era in vena, rappresentava un’esperienza straordinaria! Il suo cervello scoppiettante sprizzava dinamismo intellettuale da tutti i pori: citazioni, battute, allusioni colte e volgari, associazioni improbabili e funambolismo verbale erano gli ingredienti della sua potente dialettica. In quei momenti stare con lui era una vera gioia e se riuscivi a essere abbastanza furbo da spiazzarlo potevi ottenere, con una battuta ben riuscita, repentini avanzamenti di carriera e finanche consistenti aumenti di stipendio. Perché il suo grande problema era la noia.
Quante volte passando di fronte la porta del suo ufficio lo avevo visto con la barba lunga e gli occhi tristi, segno di una depressione incipiente. Allora era solito chiamarmi con la sua voce inconfondibile: “Ornella, venga qui…. mi faccia ridere”. Ed io spesso ci riuscivo, perché mi è sempre piaciuta la possibilità di poter parlare “senza rete” e leggevo nella sua testa la voglia di allontanarsi dal suo ciclico male di vivere. In quei momenti, si entrava in una dimensione carnevalesca in cui era lecito dire di tutto e io ne approfittavo, raccontando storie in cui menzogna e verità immancabilmente si fondevano. Alla fine della conversazione lui mi guardava stupito e ammirato e anch’io mi sentivo totalmente appagata da quegli orgasmi cerebrali. Eravamo felici, ma non lo sapevamo.
III
Ma un giorno, il gran capo mi aveva chiamato con voce alterata. Da parecchi giorni mi aveva tolto il saluto. Conoscendo il suo carattere, sapevo che in quel momento mi stava odiando e non avrebbe esitato a scaricarmi addosso tutto il fardello d’ira che si portava dentro. Per lui i sentimenti erano come gli escrementi, andavano evacuati.
Conoscevo i retroscena della sua rabbia, perché ero consapevole delle mie colpe. Ormai da alcuni mesi mi aggiravo nei corridoi della nuova azienda di via Tuscolana
come un animale in gabbia. Odiavo timbrare il cartellino e detestavo la promiscuità esistenziale dell’open space. Inoltre, loschi figuri posizionati politicamente al centro si aggiravano per l’ufficio. Erano entrati nell’organigramma da poco, ma non promettevano niente di buono.
Non riuscendo a contenere le mie emozioni, me ne andavo in giro come se avessi una coroncina di corna sulla testa, incazzata con il prossimo e con me stessa. Ero refrattaria ai discorsi banali delle segretarie, incentrati su fidanzati e trucchi, e rispondevo male ai superiori quando mi girava il culo. Praticamente quasi tutti i giorni. L’irrazionale, che è sempre stato in me, si palesava ogni giorno di più. Stavo perdendo il controllo della situazione e spesso mi comportavo come se non avessi più niente da perdere. A volte immaginavo persino di prendere la rincorsa e spaccarmi la testa sullo stipite della porta. Questo si che voleva dire “pensare positivo”.
E così mi ritrovai a cospetto del capo. Dall’altra parte del grande tavolo di legno che occupava quasi tutto il suo ufficio c’era lui con la sua testa quadrata. Era immobile come una statua di gesso: sembrava colto da un improvviso attacco di afasia. Poi chiuse gli occhi acuti come spilli e quasi fosse l’oracolo di Delfi sputò fuori la sua sentenza.
– Mi hanno parlato molto male di lei.
– Potrei sapere chi ha parlato male di me. – risposi con forzata cortesia –
Tiri fuori i nomi, perché tutto dipende dal livello di intelligenza dell’accusatore. Se è più stupido di me, io di certo non mi offendo.
A queste parole, l’oracolo perse all’improvviso tutta la sua ieratica immobilità, tutto il suo distacco, per assumere toni da scaricatore di porto.
– Lei è una grandissima presuntuosa. Si permette di parlare così e non capisce un cazzo. Quanti ha lei?
– Venticinque.
– E a venticinque anni lei si permette di prendere queste posizioni. Lei ha ancora molto da imparare. E può imparare anche da chi è più stupido di lei. Anche l’esperienza conta. Io ho iniziato a lavorare a 14 anni come operaio, perché in famiglia ero il figlio più grande. Per anni ho fatto il pendolare, alzandomi la mattina alle 4,30. Lei non si rende conto di quanto sia stata fortunata a trovare questo lavoro. Pronunciando quelle parole, l’amministratore delegato si stava trasformando nella figura mitica del grande padre. I suoi occhi da pazzo si erano fatti lucidi. Le sue parole grondavano saggezza. Non c’era dubbio: voleva aiutarmi. La mia aggressività si smorzò in un attimo. In fondo, non avevo voglia combattere. In quel periodo poi soprattutto. I suoi occhi pieni di comprensione fissi su di me e io a guardare fuori il verde degli alberi per distrarmi, per non piangere. Mi stavo sciogliendo come un ghiaccio ai primi soli.
– Io la comprendo Ornella – attaccò lui, ora con voce calma – Il suo problema è stato anche il mio. Ho impiegato anni per accettare questo ruolo e forse non l’ho ancora accettato. Lo sa lei che io negli anni 70′ andavo all’ufficio con gli zoccoli? Ed ero capo del personale in una grande azienda. Mentre l’ascoltavo stupita, cercai di immaginarlo con gli zoccoli ai piedi. Chissà che zoccoli prediligeva…mi chiesi: quelli bianchi da infermiere tutti puntinati; i classici neri opachi da protesta proletaria o più semplicemente quelli ortopedici del Dottor Schultz?
– Mi cacciarono anche dall’ufficio. Sono stato disoccupato per un certo periodo. E allora lo sa che cosa ho fatto per non perdere tempo?
– No mi dica – chiesi io, sempre più sbalordita dalle rivelazioni.
– Ho scritto un libro in 15 giorni sulla condizione operaia.
– E poi che cosa accadde nella sua vita?
– Decisi di andare in analisi. In verità sono stato in analisi otto anni. E lo sai lei che cosa ho capito?
– No mi dica.
– Che andare in analisi non serve a un cazzo. Io sono rimasto quello di sempre. Sono il ragazzo che porta gli zoccoli ai piedi, che odia le ingiustizie e che non sopporta il sistema capitalistico aziendale. La maggior parte degli analisti sono dei cialtroni.
Ero sempre più confusa. La discussione aveva preso una piega inaspettata. Ormai, timidamente, accennai:
– E io dottore?
– Lei è come un animale esotico, una bellissima tigre che crede di vivere ancora nella giungla. Lei deve imparare le buone maniere. La forma viene prima del contenuto. La verità è che lei Ornella è una gran cafona.
– E sarebbe lei il mio maestro di “bon ton”? – risposi stizzita.
A quelle parole la sua bocca dapprima si piegò in un ghigno d’ilarità. Evidentemente la mia battuta gli era piaciuta. Ero quasi orgogliosa di me, quando lo vidi mutare espressione. Ebbi in quell’attimo la conferma che il mio capo altro non fosse che uno schizofrenico. Come dicevo, lo vidi mutare espressione e diventare rosso in viso. Aspettai la sua reazione, come fosse l’annunciata eruzione di un vulcano.
– Leeeei Ornella è una caso irrecuperabile. Leeei è un vero problema per me. Non mi era mai capitato in un individuo con le sue caratteristiche…. per giunta di sesso femminile. Mi dica lei, a questo punto, che cosa devo fare? Io la potrei licenziare su due piedi. Lei questo lo sa. A quelle parole i miei occhi divennero di nuovo lucidi. In attimo, ero di nuovo diventata cappuccetto rosso che ha paura del lupo cattivo. Mi venne il dubbio che anch’io fossi un tantino schizofrenica e quello non era altro che un dialogo di pazzi? Stavo per scoppiare in un pianto dirotto, quando lo vidi mutare espressione. Anzi, per la precisione, avevo abbassato il volto per trattenere il pianto. Quando lo rialzai l’amministratore delegato era diventato un altro. Lo sguardo era dolce e carezzevole. Sembrava il genio della lampada di Aladino.
– Lo sa quale è il suo vero problema Ornella?
– No dottore me lo dica lei, perché io non ci sto capendo più niente.
– Il suo vero problema è che lei è troppo intelligente. Anzi le voglio dire una cosa:
dopo di me e Fabrizio Tuccese (chiamato anche il filosofo), io credo che lei qui dentro sia la persona più intelligente. Per questo motivo, lei si annoia. E’ vero o non è vero?
– Ma….. forse – risposi io sempre più sbalordita.
– Le voglio fare una proposta…..una proposta seria. Lei ora prende la sua sedia dal piano di sotto e si trasferisce qua da me.
– E scusi l’indiscrezione….dove esattamente?
– Qui accanto a me.
– Nello stesso tavolo?
– Precisamente.
Era sicuramente una proposta allettante, quanto rischiosa. Sarei stata sottoposta quotidianamente ai suoi umori cangianti, alle sue manie. Tutti i giorni avrei dovuto stupirlo, divertirlo come un giullare di corte. Non mi sarei potuta permettere quello stupendo lusso che è la banalità. Il dottor Papadio odiava la banalità. Avrebbe ammazzato per banalità. Certo la posizione avrebbe comportato i suoi vantaggi a prezzo di una continua e iterata seduzione intellettuale. E poi quando si cade dall’alto, ci si fa più male. Pensavo tutto questo, mentre lui mi guardava in attesa di una risposta.
– Allora che cosa ne dice? – mi domandò ad un certo punto, colto da impazienza.
– La proposta è sicuramente allettante, ma io non posso accettare.
– Lei mi sta offendendo – rispose alterato – crede di non aver nulla da imparare da me.
– Non è questo. In questo momento, preferirei avere una libera consulenza.
– Io le sto offrendo qualcosa d’invidiabile e lei si permette di rifiutare. Faccia una cosa: si prenda una bella vacanza e ci pensi un po’ su. La risposta me la darà dopo.
Ci lasciammo, stringendoci la mano. Da allora nacque una grande amicizia fatta di simpatia e di stima. Fuori dalla stanza si accalcavano i curiosi, accorsi a causa delle urla. Intorno a me… sguardi interrogativi. La tensione mi cresceva dentro, mentre fuggivo dalla curiosità degli altri.
– Che cosa è successo? Che cosa vi siete detti? – mi chiedevano tutti in coro…un coro da tragedia greca.
– Niente…niente…non è successo niente – risposi, allontanandomi.
Avevo una gran voglia di fuggire…di fuggire da quelle bocche assetate di sangue…di dramma. Via di corsa verso le scale fino a chiudermi la porta metallica dell’azienda alle spalle. Poi a piedi verso la metropolitana. Camminavo senza prestare attenzione agli altri. Mi sentivo scossa nel profondo. La metropolitana arrivò: c’era un posto vuoto. Posai la borsa e mi accasciai. Ero stanca…molto stanca. D’improvviso provai un tremore dentro, quasi una scossa tellurica. Le lacrime iniziarono a sgorgare a fiumi. Un pianto muto. La gente mi guardava e io non riuscivo a smettere.
IV
Pensavo a questi episodi del recente passato, mentre battevo i tasti della fatica quotidiana. Si.. perché ormai lavoravo con il pilota automatico. Le manine armeggiavano sul computer e la mia testa volava. Ma era un volo limitato: i pensieri sbattevano contro le pareti dell’angusta stanza, come pipistrelli senza radar. I pensieri diventavano boomerang, ogni giorno più pesanti. Tutta la mia energia era costretta in una camicia di forza e ogni volta che uscivo di lì avevo una gran voglia di strapparla quella camicia. Di ritrovarmi nuda con la mia folle identità. A volte non tornavo neanche a casa. Passavo direttamente all’enoteca a bere un aperitivo. Per iniziare l’altra vita: quella dell’ebbrezza, dell’oblio. C’è da dire che nel godermela avevo, in quel periodo, un talento innato. Adoravo dilatare i tempi, sentirmi pervasa dagli effetti dell’alcool, ma più di tutto amavo infinitamente la notte. La notte che ti avvolge come un cappotto caldo e ti trasforma; la notte senza orari; la notte di chi, vergine, ancora non si annoia dei soliti stronzi che girano la notte. Le notti trascorse con gli amici a cazzeggiare seduti sui gradini di un palazzo antico, a ridere della nostra indefinitezza sotto il cielo blu cobalto di Roma. A ridere e a rimandare, consapevoli però che non c’è tempo da perdere, perché prima o poi le porte intorno a te si chiudono e quando hai chiuso anche l’ultima finestra sei fottuto. E ti ritrovi tra quattro mura con le solite facce, ogni giorno più tristi, più avvizzite. Ma la notte serviva proprio a quello: a dimenticare, a rimandare. Quella sera, invece, di passare all’enoteca a battezzarmi con l’olio santo, ebbi la malaugurata idea di tornare a casa. Varcata la soglia, notai che mia sorella si aggirava per la casa a fronte bassa e con passo marziale. Era un chiaro segnale di pericolo. Avrei potuto fuggire, evitare di diventare il capro espiatorio dei suoi umori cangianti e uterini, ma rimasi più per inerzia, che per coraggio. Rimasi con l’atteggiamento di chi dice: “Voglio proprio vedere come andrà a finire”. E andò a finire molto male, perché presi talmente tanti schiaffi, che io stessa rimasi profondamente colpita per la qualità e la quantità delle percosse.
La mia reazione fu dignitosissima, soprattutto perché non ebbi alcuna reazione, neanche quando mia sorella mi prese per il collo e sbatte’ ripetutamente la mia povera testa sul pavimento. Alla fine dovette intervenire mio fratello, perché altrimenti Eleonora mi avrebbe ammazzato. Che mi ricordi, soltanto una volta ho osato contrappormi alla furia di mia sorella. Fu la volta delle bollette. Io mi trovavo nella mia stanza, insieme al mio amico Maurizio Padovani. Maurizio, nel corso della sua vita, ha sempre avuto qualche dipendenza. In quel periodo era dipendente da me. Curavo, con la mia sfrenata leggerezza, la sua periodica depressione. Aveva 28 anni e si era appena iscritto all’Università: studiava chimica. Per studiare, aveva venduto il suo negozio d’abbigliamento, rinunciando a tutti i vizi dell’agiatezza. E vi assicuro che lui di vizi ne aveva assai. Essendo in periodo di ristrettezze, aveva dovuto ridurli e, a forza di ridurre, gliene erano rimasti solo due: io e la birra che beveva a ettolitri. Non c’è bisogno di dire che, quando uscivo con lui, dovevo bere anch’io altrimenti si offendeva. Quel pomeriggio, l’ho ancora impresso nella mente, Maurizio era sdraiato sul letto abbracciato alla sua lattina di “Nastro azzurro Peroni”, mentre io gli leggevo le memorie del principe di San Severo. “Gittai il preparato nel pentolone alla luce della luna”: questo diceva il principe nel suo italiano arcaico. A queste parole, Maurizio ebbe un sussulto:
– Basta con queste cazzate! – disse indignato perché, con quella lettura, offendevo la sua materia di studio.
– Ma quali cazzate? Questa è la testimonianza di un chimico ante-litteram e tu dovresti ascoltare con più attenzione! – risposi – magari ne potresti trarre qualche spunto interessante.
Lui voleva certezze, mentre io adoravo il mistero: era più che naturale che su alcune posizioni ci scontrassimo ogni volta. Erano discussioni divertenti senza astio in cui io, spesso, mi divertivo ad assumere posizioni contrarie tanto per farlo imbestialire.
Fu la voce stridente di mia sorella a interrompere le nostre discussioni ludiche.
“Ornella… vieni di corsa qui, c’è una questione importante da definire”.
La trovai seduta al tavolo con una serie di bollette di fronte. Nervosamente sommava dei numeri. Io, in silenzio, la osservavo”.
“Mi devi un milione”: disse con la più totale naturalezza.
“Un milione?”: risposi con stupore “scusa mi faresti controllare i tuoi calcoli.
Non feci in tempo a dire questo che Eleonora partì di tavolino e fu talmente veloce che l’azione coincise con il dolore allo stomaco. Quell’atto violento così gratuito mi scosse la ragione. Agguantai il primo coltello che mi trovai di fronte, pronta a piantarglielo nel collo. Ma a pochi centimetri dalla pelle indugiai, perché era chiaro che l’atto era solo intimidatorio. Ci fu una colluttazione con tanto di ceffoni, urli e calci in culo.
Nel bel mezzo della lotta, intervenne Maurizio Padovani a separarci.
Tornai nella mia stanza scossa, ma non più di tanto. In quel periodo ero inossidabile, schermata. Tutto mi faceva ridere a crepapelle. Riuscivo a trovare il lato comico in tutto. E così tornai sul letto a chiacchierare col mio amico. Un leggero sorrisetto infame si insinuava sulle nostre bocche, pronte a sbellicarsi. Silenzi significativi e sguardi di complicità, prima che il tornado tornasse a schiantarsi su di noi con tutta la sua violenza.
Ed infatti dopo pochi secondi arrivò. La porta si aprì con vigore e apparve mia sorella con tutta la sua stronzaggine. Gli occhi iniettati di sangue, la bocca pronta a sputare merda.
“Sei avida, fai schifo……… mangi come un porco…e poi Pigi Del Tuca … te lo volevi scopare Pigi Del Tuca …..di’ la verità……..te lo volevi scopare eh Pigi….. Del Tuca?”
A queste parole, la porta si richiuse. Mi girai verso Maurizio Padovani che, con espressione estatica, continuava a ripetere quel nome, come se avesse un potere evocativo.
“Pigi del Tuca” ripeteva tra sè e sè. “Ma chi cazzo è sto’ Pigi Del Tuca?”.
Di Pigi Del Tuca mia sorella era stata perdutamente innamorata qualche anno prima. Ma la storia era finita male, perché Gigi era uno scapolo impenitente, allergico al matrimonio, oltreché un inguaribile donnaiolo.
Intelligente e colto ai limiti dell’aterosclerosi, amava le citazioni letterarie, i vini buoni e l’alta cucina. Era un soggetto interessante, ma pericoloso perché amava sedurre e fuggire dopo la conquista. Così era successo anche con mia sorella. Amava, inoltre, le situazioni un po’ perverse, intricate, come scoparsi la migliore amica della sua donna o la sorella. La mia posizione di sorella mi rendeva appetibile ai suoi occhi. Per questo, io sono sempre sfuggita al suo insistente corteggiamento. Ma questo Eleonora non lo sapeva. E non era importante che lo sapesse.
Per Maurizio Padovani, Pigi Del Tuca divenne un mito…. il mito del “folle scopatore”. Erano finiti i tempi di Pigi Del Tuca, i tempi i cui si rideva per un nonnulla: alla giovanile euforia era subentrata una sorta di malinconia, quella malinconia che porta alla fuga da sè stessi.
E così le rinnovate botte non sortirono il medesimo effetto. Non ci fu irrisione, perché non ci fu reazione. Me le presi tutte fino alla fine e mi sembrò il giusto coronamento di una giornata, iniziata con un pesante calcio in culo e conclusasi con una scarica di pugni in faccia. Ma mi sbagliavo, perché la giornata ancora non era finita, mancava la parte migliore. Mancava la notte.
Dolorante mi ritirai nella mia stanza e piansi moltissimo, quasi con una sorta di autocompiacimento. Piansi all’inizio per il dolore, poi provando il piacere di piangere. Godevo nel sentirmi una poveraccia, mi piaceva quel senso di abiezione.
Venne mio fratello a consolarmi, ma continuai fino ad avere due enormi borse sotto gli occhi… fino a quando non divenni orrenda.
Solo allora mi rialzai: scatto di reni e via verso la strada, verso la notte.
Fuori dal locale c’era Fabrizio ad aspettarmi. Fabrizio dai lunghi capelli neri di seta e dall’espressione altera. L’ho conoscevo ormai da alcuni anni e posso dire di non averlo mai visto veramente soddisfatto. Aveva iniziato mille cose e fatto mille esperienze: niente lo rendeva felice.
“Fossi stato al tuo posto, sarei campato di prepotenza”: soleva dire un comune amico di Alberto alludendo alla sua avvenenza, al suo fascino che mieteva vittime. In realtà, Fabrizio mancava di umiltà, una dote fondamentale per raggiungere delle mete. Se ne stava sul suo gradino, come un falco reale che guardi dall’alto verso il basso i pollastri razzolare sull’arena.
Tutti noi eravamo i poveri polli incapaci di volare. Le sue critiche non risparmiavano nessuno, neanche i suoi amici…… perchè quando parlava degli altri lui diceva “la gente”, quasi fossimo il popolino che il saggio stoico scruta impassibile dalla sua montagna. Fabrizio mi aspettava scuotendo la sua folta capigliatura. Sul suo volto un’espressione seria, accigliata come di chi avesse cose troppo importanti per la testa. Io come al solito ero in ritardo.
“A quest’ora ti presenti….io ti ho preparato una seratina con i fiocchi”.
Al suo fianco c’era John, un inglese talmente imbevuto di alcool da farti venire voglia di strizzarlo. John aveva le gote rosse e la pelle malsana dell’etilista incallito. Viveva insieme a un amico della sua stessa nazionalità che, nonostante risiedesse ormai da alcuni mesi a Roma, non parlava ancora una parola d’italiano. Insieme formavano una strana coppia: sembravano usciti da un fumetto. Anni più tardi avrei rincontrato Keen, l’inglese muto, per le strade del centro. Ormai era capace di comunicare, anche se il suo italiano appariva ancora stentato e buffo. Quella sera, come sempre, i due erano pronti a ricominciare la serata a base di alcool e droghe. John continuava imperterrito nella sua opera di demolizione, nonostante il suo corpo fosse ormai inquinato d’immondizia. Dalla sua pelle rosea trasudava malessere, un malessere somatizzato in un sudore madreperlaceo e riflettente. Anche quella sera erano talmente riforniti, da aver bisogno del porto d’armi. Pensammo di iniziare con l’alcool in un locale chiamato la “Vetrina”. Mai nome era stato più giusto per un luogo dove gli individui passavano il tempo a scrutarsi gli uni con gli altri. Nessuno viveva per se stesso. Sembrava una passerella, dove gli attori vivevano effimere esistenze in attesa di uno sguardo di ammirazione, di approvazione. Prima di entrare tra la marmaglia, mi sedetti sul gradino dell’enorme palazzo antico posto di fronte al locale. Da quella prospettiva ribassata e privilegiata godetti nell’osservare i casi umani di variopinta stupidità che si accalcavano sull’uscio del “Vetrina”. Quella sera non c’era nessun personaggio interessante da studiare, nessuno che attirasse la mia attenzione per fascino, bellezza o bagliore d’intelligenza. Ma a un tratto lo notai. Lui era lì con gli occhi persi nel vuoto, un portamento elegante sotto abiti da barbone; distratto come inseguisse pensieri d’abisso.
Potrei riconoscere quella tipologia di occhi tra mille: occhi verde muschio, di un azzurro corposo cangiante o di un marrone nocciola luminoso connotano i veggenti. Uno sguardo che non si riesce a sostenere perché ti penetra, pur sembrando oltrepassarti. Uno sguardo che la sa lunga. Uno sguardo antico, arcaico, che pareva provenire dalla notte dei tempi. Pupille febbrili, in cerca di aiuto eppure nel contempo altere. E tra simili ci si riconosce. Quell’uomo si accompagnava a una bella donna bionda, molto curata nell’aspetto esteriore, anche se la disperazione era la medesima. C’era però una differenza sostanziale di atteggiamento nei riguardi di quella disperazione: lui non la nascondeva; lei invece la celava (lotta vana!), ostentando una forzata estroversione. Ed è chiaro che l’obbligo della seduzione nasconde cupi fantasmi. Ma quando si accetta la propria disperazione, guardando lontano o vicino nel precipizio della propria anima, allora si finisce per superare l’obbligo di dover piacere, di dover straparlare per essere accettati. E si diventa la seduzione stessa. Ci si trasforma in individui pericolosi che ti toccano l’anima senza dover far niente. Tu li ami perché esistono, belli e ieratici come gatti.
– Ciao Fabien – disse Fabrizio, rivolgendosi a quel ragazzo.
Così si chiamava Fabien quel ragazzo incantevole, pensai mentre continuavo a osservarlo come ipnotizzata.
E come volessi favorire l’incantesimo dell’esistenza, pronunciai dentro di me queste esatte parole: a presto Fabien, noi due ci rincontreremo e saranno momenti speciali. Alcuni mesi lo rividi, solo, con gli occhi persi nel vuoto e quella volta fu lui a notarmi per primo. Fabien aveva bisogno di sedurre per poter vivere, aveva bisogno di sentirsi amato, ma non poteva amare, non poteva sentirsi legato e responsabile di altrui esistenze. Come coloro che portano in sè cupe cicatrici di infanzie dolorose. Ferite che difficilmente si risanano. E anche quando paiono risanarsi, per un nonnulla tornano a sanguinare. Tutto questo lo compresi in un istante che mi parve immenso, mentre continuava a guardarmi.
“Tu sei Fabien?”: dissi, come presa da un impulso irresistibile.
“Mi conosci?”:rispose lui con aria un po’ smarrita.
“Sì”. Ma questa è un’altra storia. Un altro filo nella tela della straordinaria tessitura della vita.
Quella notte appuntai Fabien nel mio cuore, rimandando le palpitazioni a un vago appuntamento del destino che a me pareva già certo. Entrai nel locale e sedetti sullo sgabello di fronte al bancone. L’atmosfera era ovattata ed eccitante. L'”Effetto notte” mi permeava di sensazione carnali, bagliori di incoscienza. Un primo gin tonic per rompere il ghiaccio. Già l’atmosfera intorno si rischiarava in gradevole luminescenza. L’esistenza mi sorrideva e io sorridevo a lei. Ma ancora non si era toccata la soglia della naturalezza da basso-ventre, perché ancora ci si sforzava per sembrare simpatici ed estroversi. Via un secondo gin-tonic: ormai anche le pareti si erano rischiarate e quella luce mi avvolgeva come un caldo cappotto. Era la notte a vivere, rompendo i ritmi della fatica e del dovere. Ora ci si doveva distendere e io avevo una giornata difficile da smaltire, una giornata fatta di botte e di angoscia. Anni dopo avrei vissuto qualcosa di assai più terribile: la sensazione di aver perso tutto, me stessa, la mia identità. Un turbinio di sensazioni, le più bieche; le paure, le insicurezze, il timore di non saper amare, la voglia, il desiderio di sprofondare nel baratro e l’egotismo puro nel compiacimento della mia malattia. La voglia di annichilirmi e un attimo dopo quella di riemergere. Ma come fare con quel fardello di nevrosi, di ricordi luttuosi, di sensi di colpa? Sensi di colpa verso chi? Verso me stessa per non aver sentito il cuore, per essermi esposta. Dopo il delirio ho sognato un aereo; un grande aereo che non poteva decollare, anzi faceva marcia indietro. Alcuni mesi prima, sempre in sogno, mi ero vista volare sopra Campo dei Fiori. Ero a un passo dalla meta e ho vanificato tutto, correndo incontro a qualcosa di prefigurato, come se inconsciamente lo volessi. Proprio nel momento in cui avevo incominciato ad amare, ad amarmi, a sentirmi parte di un tutto.
Ma lasciamo perdere il presente per rientrare in quella maledetta serata che continuava a ritmo di gin-tonic. Al “settimo gin tonic” divento Tony Manero, era solito dire Maurizio Padovani. Una sola volta l’avevo visto trasformarsi nel mitico personaggio della febbre del sabato sera. Eravamo nell’isola di Vulcano, appena rientrati da una gita in barca notturna. Non c’è bisogno di dire che eravamo tutti ubriachi persi. E con l’occhietto annebbiato dall’alcool, prima di svenire, l’avevo visto flettersi, fino a toccare con la testa il pavimento. Ancora oggi non so se quello che avevo visto fosse sogno o realtà. Sogno di fuga era quello che vedevo intorno a me al “Vetrina”. Una fuga che attuavo ogni sera con feroce determinazione. Via giù con un altro gin tonic per sentirmi leggera, impalpabile. Ormai le figure intorno a me erano ombre, ombre di libertà, ombre di prigionia. Si parlava intorno cercando di sedurre l’altro. Si viveva di questo, a volte, la notte. Un sorriso, un’occhiata ammiccante, l’odore del sesso, l’odore di promesse vane. Il tremolio evanescente dei corpi che si muovono nel nulla. Il look giusto per colpire il segno. Ormai la mia testa piena d’alcool si faceva cullare dalle onde: un piacere immenso mi pervadeva, quello dell’oblio. Avessi ora questo piacere, saprei ove scaricare questo dolore che m’ingombra il cuore e il cervello. E invece l’alcool scende nello stomaco, senza sortire alcun effetto: è come se l’apparato digerente non fosse collegato col cervello. Che brutta sensazione per chi ha amato fino allo sfinimento i piaceri della vita! Un vero e proprio contrappasso dantesco! In quel periodo no. Vivevo per sprofondare nel godimento. E mentre assaporavo quel torpore cerebrale che ti rende vivo, aprendoti alla percettività senza ragione, vidi sopraggiungere Fabrizio che, fino a quel momento, si era intrattenuto in piacevole conversazione con una donna.
“Bisogna andare” – disse con il fare di chi la sa lunga, mentre invece non ha ancora capito un cazzo.
“Dove?” – risposi io che, come un gatto arrotolato sul divano, andavo via via trovando la mia posizione.
C’è una festa bellissima in periferia – continuò con foga, accarezzandosi i capelli – John e Keen sono i D.J. Ci sarà una musica fantastica.
“Va bene mi associo”.
D’altronde che cos’altro si poteva fare se non deambulare il proprio culo nella notte. Il mio poi era sempre stato un culo pesante che spostavo a fatica e di rado. Mentre la macchina sfrecciava tra le strade sgombre, John trovò il tempo di rollare una canna d’erba. C’erano poche persone capaci di rollare una canna d’erba con una mano sola: John era uno di quelli. Che perizia! Che precisione! Che stile! Un vero lord inglese…. non c’è che dire! Fumammo con avidità. Con la voglia di sballarci ancora di più. Per entrare nella sala fatti come zucchine. Attaccarsi alla canna, anche all’ultimo tiro vicino al cartone per non perdersi niente.
“E’ la prima canna che fumi?”
“Vorrai di’ il primo cartone!”: rispose l’eroinomane incallito a un gruppo di sbarbatelli, neocultori dello sballo. Eppure il vero “drogoloso” si contraddistingue proprio dal tiro prolungato del cartone, che è poi la variante povera di chi non si rassegna all’idea che ogni cosa ha una fine.
V
La sala era fumosa e ci si vedeva a fatica, la musica aveva un ritmo assordante che si imprimeva nelle orecchie. Mi facevo largo tra la gente, ma il mio malessere cresceva, cresceva per quel turbinio di rumori, misto a viscerali solitudini, per quelle facce senza espressione che si dondolano nell’altalena del mondo senza guardare in nessuna direzione. John e Keen, dietro la consolle, s’impegnavano per animare la serata. Li intravedevo con gli occhi appannati di chi si lascia trasportare dalla musica. Parevano gli sciamani in estasi di rivelazione dopo aver ingurgitato strane misture di erbe esotiche: l’occhietto semichiuso di chi ha spento l’interruttore neuronale e un dondolio perpetuo, lento e ritmico sul corpo. Così li vedevo prima che l’extasy ingurgitata in sala iniziasse a sortire i primi effetti. L’extasy, questa sostanza prodigiosa che ti fa sentire un dio disinibito e in pace con il mondo. L’extasy: un mondo di leggerezza, di godimento, di felicità per non affrontare la vita, l’impegno, il dovere. Una volta avevo preso un extasy proprio sulla tazza del cesso, riuscendo ad avere un delirio di onnipotenza anche in quella sede. Avevo il culo attaccato alla ceramica bianca e credevo di essere su un trono dorato. Salvo poi ritornare lo stronzo che eri in partenza, quando ti passa l’effetto. Anzi più stronzo di prima, considerata la posizione in cui ti eri sopraelevato. E sul water, la vicinanza reale all’escremento ti porta ancor più a riflettere sui vacui destini della vita. Trattasi del tipico caso di “down” da evacuazione infruttifera.
Quella notte l’extasy, mescolata all’alcool e alla canna, ebbe un effetto devastante sulla mia psiche. Mi feci largo tra la gente con l’urgenza di uscire dal locale. Come quando trattieni a lungo la pipì e cammini a lungo, prima di trovare un luogo ove liberarti. Eppure sia che tu faccia 10 metri a piedi o 10 kilometri, stai pur certo che saranno gli ultimi due metri a fregarti. Quante volte, proprio per queste ragioni filosofiche, avevo pisciato sulla rampa delle scale, incurante del sopraggiungere degli inquilini! Una volta addirittura avevo suonato disperata al mio vicino di casa, nonché maniaco sessuale travestito da perfetto borghese, il Signor Camilluccia. E anche in quell’occasione era stato il raggiungimento della meta a fottermi, perche’ mentre il Signor Camilluccia mi accompagnava in bagno, avevo segnato il percorso con piccole gocce di pipì, come Pollicino faceva con le sue bricioline di pane.
Ecco…. mi perdevo in queste considerazioni, mentre mi avvicinavo alla porta del locale. Se dovevo crepare, volevo farlo con dignità, senza urli e strepiti festaioli intorno e soprattutto senza i soliti guardoni di disgrazie altrui. Quelli che vedi intorno ai feriti, quando accadono incidenti stradali….. che poi quel povero ferito, quando si sveglia e si vede intorno tutte quelle facce da cani arrapati, pensa subito di essere già all’inferno…. e magari invece di morire dissanguato, muore di infarto secco…..causato da inestetismo percettivo.
Beh! Il voyerismo da sperato obitorio proprio lo volevo evitare!
Ancora pochi metri e sarei stata fuori.
“Dove vai?” – disse Fabrizio, quando mi vide passare.
“Vado a prendere un po’ d’aria fresca” risposi, sforzandomi di essere normale. VOLEVO ESSERE NORMALE. Era una vita che lottavo per esserlo. Eppure per quanto mi sforzassi non ci riuscivo mai. C’era sempre qualcosa, anche un piccolo particolare, che andava storto. E ora che diavolo ci facevo alle 4 di mattina sdraiata vicino ad un cassonetto puzzolente?.
Esmeralda Gomez