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Guerra di spie del Terzo Millennio: satelliti, droni, virus informatici, ma anche killer spietati

20 Giugno, 2019

James Bond, l’agente segreto di celluloide più famoso del mondo, partorito dalla penna di Ian Fleming, ha la licenza d’uccidere e la usa con disinvoltura disseminando di cadaveri le trame dei romanzi che lo vedono protagonista. Si dirà: ma questa è fiction, nella realtà invece le cose vanno diversamente! Le spie sono figure anonime che operano nell’ombra e si occupano soprattutto di intercettare e trasmettere informazioni, non baldi giovanotti muscolosi e aitanti che, mentre seducono donne stupende, fanno fuori a colpi di karate o di P.38 i cattivi di turno. E’ proprio così? Qualche dubbio si affaccia alla mente. La guerra di spie è realtà, non immaginazione. Gli 007 hanno sempre ucciso per portare a compimento le missioni assegnate, eliminare figure scomode o intimidire gli avversari. E talora lo hanno fatto in modi singolari e bizzarri. Una verità di ieri come di oggi. Il caos che sta turbando gli equilibri geopolitici internazionali, infatti, è l’humus ideale per la guerra di spie, come accadde nel secolo scorso. Guerra senza esclusione di colpi che si avvale di killer spietati e di armi talora originali e non convenzionali. Proprio vero che la realtà supera anche la fantasia degli autori di fiction. Per gli 007 in azione non ci sono limiti, ogni mezzo va bene purchè colga nel segno: veleni subdoli e terribili, bombe nascoste in oggetti di uso quotidiano, trappole mortali. In genere, i servizi segreti li usano quando devono eliminare qualcuno difficile da sorprendere o da raggiungere in territorio straniero, magari nemico. In quelle situazioni non è opportuno ricorrere ai cecchini, ai droni o ai raid aerei. A volte, l’arma impiegata cela anche un messaggio da inviare a chi protegge la vittima prescelta: nessuno può sfuggire all’epurazione o alla ‘vendetta’, per quanto possa sentirsi protetto, e al tempo stesso nessuno, per quanto prudente e previdente, riesce a immaginare tutti i possibili modi in cui la morte potrebbe coglierlo. Una morte che, per definizione, deve sempre apparire inesorabile. Una punizione esemplare, un supplizio crudele, che non lascino scampo e facciano soffrire molto e a lungo. La cronaca e la Storia ci consegnano diversi casi del genere.

Aleksandr Litvinenko, ex agente dei servizi segreti russi divenuto successivamente dissidente antiputiniano, venne ucciso nel novembre 2006 con una dose di Polonio 210, un veleno radioattivo versato nella sua tazza di tè nel suo asilo londinese.  Morì lentamente, in tre settimane, in un letto d’ospedale. Tecnica analoga fu usata ai danni del leader di Hamas, Khaled Meshaal, che sei agenti del Mossad (servizio segreto israeliano) tentarono di uccidere ad Amman, spruzzandogli veleno in un orecchio il 25 settembre del 1997. L’operazione fallì, Meshaal se la cavò e due agenti israeliani furono catturati dalla polizia giordana.

Andò in porto, invece, l’omicidio di Yahya Ayyash, capo militare ed esperto di attentati dinamitardi di Hamas. Il 6 gennaio 1996 la sua testa fu spappolata da una carica esplosiva piazzata nel cellulare e azionata, quando lui rispose a una chiamata del padre, da un drone, che dirottò la chiamata di provenienza agli agenti israeliani, i quali telecomandarono la carica.

Imprevedibile fu l’eliminazione del leader militare saudita della guerriglia fondamentalista islamica cecena, Ibn al-Khattab, da parte del servizio segreto russo Fsb nell’aprile 2002. Imprendibile e superprotetto, Khattab era rimasto ferito in precedenza in un raid aereo. Ma a ucciderlo fu una lettera del padre – con cui lui era in regolare corrispondenza – che quando gli fu recapitata era stata contaminata con gas nervino, che Khattab assorbì semplicemente toccando la missiva.

La madre di tutti gli omicidi bizzarri agì durante la Guerra Fredda. A farne le spese fu il dissidente bulgaro Georgi Markov, fatto fuori a Londra da agenti del servizio segreto di Sofia, Dsb, assistiti dal Kgb sovietico. Settembre 1978, la capitale britannica, più fascinosa che mai, appare come lo scenario perfetto per un delitto degno dei migliori romanzi di John Le Carrè: mentre aspettava un autobus a Waterloo Bridge, il bulgaro avvertì una lieve puntura sulla gamba destra. Voltandosi, vide un uomo che gli chiedeva scusa per averlo urtato con la punta del suo ombrello. Rapidamente, lo sconosciuto salì su un taxi e si dileguò. Passato alla storia come “l’ombrello bulgaro”, l’attrezzo nascondeva un dispositivo a siringa in punta che iniettò una sfera microscopica intrisa di ricina nella gamba di Markov. Il dissidente spirò quattro giorni dopo in ospedale.

Venendo a tempi più recenti, ci imbattiamo in altri casi inquietanti. Sebbene siano segnati soprattutto dalla guerra elettronica, che assume la Rete come campo di battaglia privilegiato, gli scenari geopolitici attuali sono comunque punteggiati da numerosi omicidi mirati, eseguiti pure in forme crudeli e particolarmente originali. Il 13 febbraio 2017, a Sepang, in Malesia, due donne assoldate dai servizi di Pyongyang, assassinano Kim Jong-Nam, fratellastro del leader della Corea del Nord, con uno spruzzo di ‘VX’, gas nervino inodore e insapore, 100 volte più letale del gas nervino sarin e in grado di paralizzare segmenti del sistema nervoso con l’inalazione o il contatto con la pelle. In questo caso si muore soffocati. Come non ricordare, poi, l’omicidio efferato del giornalista saudita dissidente, Jamal Khashoggi, fatto a pezzi da un commando di agenti venuti da Ryad all’interno del consolato del suo Paese ad Ankara, in Turchia. La responsabilità del delitto ricadrebbe, secondo autorevoli fonti dell’intelligence occidentale, sul principe ereditario Mohammed bin Salman che, ovviamente, non ha finora dovuto rispondere in alcuna sede istituzionale delle accuse e dei sospetti che aleggiano intorno alla sua persona.

 

Raoul Mendoza

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