Il cervello e la morte: il programma dell’autodistruzione
Soltanto una nuova intelligenza sociale potrà salvare la specie Uomo e l’ambiente che la ospita
Soltanto una nuova intelligenza sociale potrà salvare la specie Uomo e l’ambiente che la ospita. Freud sosteneva che i tre “giocatori” che si contendono e condizionano l’esistenza degli umani sono il principio di realtà, il principio del piacere e la pulsione di morte, correlati in un divenire dialettico permanente. Secondo questa teoria, la distruttività umana, del Sé come della specie, sarebbe una componente strutturale dell’essere-nel-mondo. Non caso, Heidegger diceva che l’esser-ci è essere-per la morte. Astruse elucubrazioni filosofiche, le definirebbe qualcuno. In realtà, sofisticate speculazioni che colgono l’essenza della condizione umana, paradossalmente valorizzata e corredata di senso proprio a causa della prospettiva della sua fine. Ora, questa apparentemente astratta elaborazione concettuale trova conferme nelle neuroscienze. La distruzione della specie umana è scritta nella parte più antica del cervello, programmato per essere un “predatore del mondo”. E’ quanto emerge dalla ricerca italiana pubblicata recentemente sulla rivista Biological Theory e condotta da Paolo Rognini, del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa.
“Stiamo scoprendo che i nostri crani ospitano cervelli che danno ancora risposte ancestrali, non adattative all’era in cui viviamo”, ha detto il ricercatore. “In pratica – ha aggiunto – abbiamo alcuni comportamenti, residui di risposte arcaiche, che ci porteranno a distruggere il pianeta e, di conseguenza, noi stessi, realizzando così una versione del tutto inedita dell’evoluzione: l’autoestinzione di una specie”. Il ricercatore considera il cervello un ‘software vestigiale’, un programma generato all’inizio della storia degli esseri umani e che oggi non è più adatto a rispondere agli input di un ambiente completamente diverso. Va quindi aggiornato, secondo la teoria proposta da Rognini, per non rischia di portare la specie umana all’autoestinzione, ossia al trionfo della pulsione di morte nella sua corsa verso l’abisso.
“Siamo portatori di un atteggiamento predatorio nei confronti del mondo che ci sta intorno”, ha detto ancora Rognini. Per questo è indispensabile intervenire subito, senza aspettare un nuovo atteggiamento dettato dai lunghi tempi dell’evoluzione. “Non possiamo permetterci di aspettare 300.000 anni – ha spiegato – e allora solo modificando la nostra cultura riusciremo a non far scomparire la specie umana – ha aggiunto – Per milioni di anni l’uomo è rimasto soggetto al controllo dell’ambiente, come tutti gli altri animali, e solo dopo è divenuto trasformatore dell’ambiente e della materia divenendo un super-estrattore”. Parallelamente gli esseri umani sono diventati una specie sempre più diffusa: “se per anni siamo stati una specie rara, adesso la tendenza all’espansione potrebbe portare a un definitivo collasso, anche ecologico, entro pochi decenni. Per non parlare della nostra specie”. Il meccanismo dell’autodistruzione è al lavoro, dunque, messo in moto dalla nostra psiche profonda. E’ possibile fermarlo? Come fermarlo e invertire la tendenza? Questo il rompicapo che ci assilla. L’unica sfida plausibile e praticabile potrebbe essere la costruzione di una nuova intelligenza sociale e molecolare. In altre parole, un cervello collettivo adeguato all’era della globalizzazione digitalizzata, in grado di gestire e padroneggiare le grandi trasformazioni in corso e a venire. Un’impresa titanica facile da evocarsi, come la nascita dell’Oltreuomo di nietzschiana memoria, quasi impossibile da realizzare. In mezzo, fra durezza del presente e visionaria radiosità del futuro, si delinea un’estenuante deriva: l’inesorabile decadenza della civiltà, la caduta progressiva nella regressione piuttosto che l’evoluzione verso le “magnifiche sorti e progressive”.
Raoul Mendoza