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Labirinto afghano: il ruolo di Isis-Khorasan

27 Agosto, 2021

Cosa ci dicono le fonti d’intelligence disponibili

Nel complesso mosaico di milizie e intrecci  tribali che caratterizza l’Afghanistan, l’Isis-Khorasan, il ramo di  Daesh nell’Asia centrale che ha rivendicato gli attentati suicidi di  Kabul, costituisce una grande incognita. Le notizie che giungono da fonti d’intelligence sulla formazione terroristica, sorta nel 2015, sono frammentarie e a volte contraddittorie. Non è mai stata  pienamente chiarita, ad esempio, l’esatta natura dei rapporti con lo  Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, e ambigue sono le relazioni  con i talebani, sulla carta loro nemici giurati. Ieri, a caldo subito  dopo le esplosioni all’aeroporto, il portavoce dei talebani,  Zabihullah Mujahid, ha ribadito l’intenzione dei nuovi governanti del  Paese di non voler permettere “ai terroristi di usare l’Afghanistan  come base per le loro operazioni”.  Secondo l’Onu, l’Isis-Khorasan conta 2.200 miliziani armati  concentrati nella provincia montana di Kunar, al confine con il Pakistan. Un contingente composito, dove trovano spazio militanti pashtun pakistani fuggiti dal loro Paese, disertori afghani, estremisti uzbeki e, in numero più limitato, reduci arabi di quello  che fu lo Stato islamico siro-iracheno. Le comunicazioni con le altre  filiali del califfato nero, si legge in un’analisi scritta da Thomas  Parker per il Washington Institute, sono ormai limitate a messaggi via cellulare e i finanziamenti ridotti a un piccolo rivolo. Più di un analista aveva però affermato che un ritorno dei talebani al  potere avrebbe offerto ai terroristi la chance di rialzare la testa. Tuttavia, nonostante l’obiettivo comune di rovesciare il governo di Kabul, talebani e Isis hanno sempre combattuto tra loro per il controllo del territorio. La lunga campagna di sanguinosi attentati commessi dall’Isis contro obiettivi sia civili che militari ha però contribuito a  creare nel Paese il clima d’instabilità che ha consentito ai talebani di riconquistare la guida del Paese. E gli studenti coranici non si sarebbero limitati a un’occasionale condiscendenza nei confronti dei terroristi. Il tramite tra i due gruppi sarebbe un’altra formazione  jihadista, la rete Haqqani, vicinissima ai talebani che, secondo alcune fonti d’intelligence, avrebbe aiutato l’Isis a organizzare e a portare a compimento diversi attacchi contro obiettivi governativi  afghani.  I talebani potrebbero inoltre avere interesse nel mantenere in vita le cellule locali dell’Isis in modo da poter compiere, di tanto in tanto, strette repressive a loro danno che mostrino alla comunità internazionale un impegno di facciata nella lotta al terrorismo. Attualmente, sembra probabile, anche alla luce degli  attentati all’aeroporto di Kabul durante le operazioni di evacuazione delle ultime ore, che una delle priorità dell’Isis-K consista nel voler distruggere l’influenza e la potenza talebana nell’Afghanistan orientale. Un primo passo per costruire una nuova  grande base del jihadismo globale. Lo Stato Islamico in Afghanistan, negli ultimi anni fortemente indebolito dalla nuova ascesa dei talebani e dalle operazioni  militari dell’esercito regolare afghano, avrebbe quindi interesse a  scatenare una sorta di “guerra” per radicalizzare nuovi adepti  sunniti e reclutare così nuovi militanti per riconquistare il  terreno perduto. Una strategia simile a quella che mise in atto in  Iraq Al Zarqawi, progenitore dell’Isis, contro gli sciiti. Stavolta,  però, l’obiettivo sarebbe la minoranza Hazara, bersaglio ideale per  alimentare una nuova escalation di violenza nel Paese.

Se questo è lo scenario del labirinto afghano, ce da chiedersi: a questo punto quale potrebbe essere l’interesse Usa e occidentale, una volta effettuato il ritiro delle truppe ed evacuate le persone che hanno effettivamente collaborato? Altra domanda rilevante: che fine hanno fatto le forze antijihadiste come l’Alleanza del Nord e le migliaia di uomini e donne che per vent’anni hanno costruito e partecipato allo Stato Afghano sostenuto dagli alleati? Saranno in grado di esprimere una qualche forma di resistenza? Si pone infine la madre di tutte le domande: cosa farà il Pakistan, il vero convitato di pietra, quello che ha protetto, manipolato e foraggiato talebani e Al Qaeda in tutti questi anni. Non dimentichiamo che Osama Bin Laden risiedeva tranquillamente, indisturbato, ad Abbottabad…

Consapevoli ormai i Governi delle due sponde dell’oceano che è impossibile portare a termine in quel Paese con successo alcuna consolidata operazione di “nation building”, data la varietà dei soggetti e degli interessi in campo, forse sarebbe auspicabile paradossalmente una conclamata guerra civile fra le diverse fazioni jihadiste. Nella speranza che si logorino vicendevolmente in un estenuante conflitto senza fine, consentendo poi d’intervenire, quando necessario, con mirate e chirurgiche azioni di attacco tese a colpire la fazione risultata più forte e a neutralizzare le risorgenti cellule terroristiche in grado di minacciare i nostri territori e le nostre città.  In ogni caso, errori e incertezze permettendo, una considerazione può essere fatta a buon diritto: nessuno è in grado di conquistare la libertà per conto terzi. Nemmeno i più forti del mondo. Staremo a vedere gli sviluppi. La situazione è drammaticamente complessa, per nulla eccellente, ma in movimento…

Paul Nicastro

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