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Sguardi incrociati nel Metrò

15 Luglio, 2019

“Una donna è un piatto per gli dei, se a condirlo non è il diavolo” (William Shakespeare – Antonio e Cleopatra, Atto V, Scena I)

La donna è seduta di fronte, accanto alla porta scorrevole. Il treno corre veloce dentro la galleria fermandosi a tutte le stazioni della linea A del Metrò. Le porte si aprono e si chiudono in una manciata di secondi, giusto il tempo di far entrare e uscire i passeggeri. Non è l’ora di punta. Il vagone è mezzo vuoto, pochi soggetti stanno in piedi aggrappati agli appositi sostegni. Immersi negli smartphone, altri sono seduti. Sembrano ignari di tutto e di tutti, rinchiusi in una sorta di autismo digitale. Io, invece, guardo intorno. Cerco le facce, scruto i volti, per tentare di capire chi stia vicino a me, per intercettare i pensieri del prossimo (“ama il prossimo come te stesso?”), decifrando le diverse fisionomie. La fisiognomica mi ha sempre appassionato. Bella pretesa, la mia! Comprendere le persone, carpirne i segreti, tracciare il loro identikit a partire dai tratti del volto, dai gesti, dalle espressioni, dagli sguardi, persino dal colore degli occhi, questa la pulsione cui non resisto. In realtà, è un gioco che faccio con me stesso per convincermi che sono più intelligente degli altri, che non mi associo pedissequamente al gregge, che non aderisco acriticamente alle mode trendy. Vi siete accorti, ad esempio, che i maschi giovani sono spesso pelati con la barba? Son tutti seguaci di Mohammed? Avete notato che abbondano tatuaggi e piercing sui corpi seminudi di adolescenti, adulti e persino anziani? E’ raro ormai trovare una ragazza che non presenti una variopinta farfalla stampata sulla coscia o un arabesco disegnato sulla schiena, per non parlare di quello che compare sulle chiappe e sull’inguine. E che ne dite dell’anellino inserito nelle piccole labbra o del bulbo d’acciaio in mezzo alla lingua? Bisogna ammettere, però, che chi sfoggia gioiellini di questo tipo è capace, di solito, di scopate e di pompini performanti. Probabilmente, il mio è soltanto snobismo pseudo intellettuale. La velleità di decodificare il mondo per prenderne le distanze, per affrancarsi dalla massa informe e contrastare il conformismo dilagante, credendo così di collocarsi su un gradino superiore rispetto a quello su cui brulicano i comuni mortali. In altre parole, la fallace convinzione di perseguire l’aristocrazia della mente contro la volgarità dei corpi, l’oscenità dei modelli stereotipati. In realtà, forse, non capisco niente di niente. Non so cogliere lo spirito del tempo, come diceva Hegel, e mettermi in sintonia con esso. Eppure, non mi do per vinto. Insisto nella vana ricerca della conoscenza… delle cose e delle persone. Insomma, la ragione che s’illude di governare gli eventi e le relazioni umane. Balle razionaliste senza riscontro!

Mentre mi almanacco il cervello e inseguo sogni irrealizzabili, intanto lo sguardo vaga, i miei occhi perlustrano la carrozza. Si posano sulle figure circostanti, livide per lo più, anonime, insignificanti oppure orripilanti, evidentemente assillate dalle preoccupazioni, intrise di una quotidianità grigia che trapela da ogni poro, paradossalmente anche dalle acconciature e dall’abbigliamento volutamente bizzarro e trasgressivo che taluni ostentano senza pudore. A volte, ho la sensazione di assistere a un party affollato da creature abnormi, alieni provenienti da altre dimensioni… Ancora l’intellettualismo che mi perseguita… Poi, dopo un viaggio fulmineo nello squallore esistenziale generalizzato, torna alla base, lo sguardo, e si appunta per un istante sulla giovane donna seduta di fronte, accanto alla porta scorrevole. Lei è diversa. La fotografia è immediata. Capelli lisci corvini incorniciano un viso dai lineamenti delicati. Naso all’insù, adornato da un brillantino (anche lei non sfugge alla moda), labbra morbide e ben disegnate, esaltate da un rossetto cremisi che le rende ancor più sensuali, occhi grandi e vellutati di un nocciola intenso. Il corpo è snello, slanciato ma tornito. Il seno è sodo, ma non eccessivo. Accavalla gambe lunghe inguainate da autoreggenti fumè, sormontate da una fascia elastica intarsiata di pizzo nero e appena lambite da una minigonna dello stesso colore. E’ incantevole, sebbene sprigioni una sottile aura sinistra. La osservo da qualche secondo, rapito dal suo fascino. Lei guarda in basso. Sono certo che non mi abbia notato. Ma sbaglio. Improvvisamente, alza la testa, i suoi occhi incontrano i miei. Li fissano e li trapassano. E’ un lampo. Per un nanosecondo sono calamitati gli uni dagli altri in un vincolo lisergico e si trasmettono messaggi subliminali. Mi domando: l’ho già vista? La conosco? Non so, non ricordo… Poi, lei si stacca e volge la testa altrove. Si sofferma sulla barra in alto che reca i simboli di tutte le stazioni della linea A. Sembra controllare che quella giusta non sia già stata sorpassata dal treno in corsa. Temo che a breve debba scendere, che esca da quella maledetta porta scorrevole e svanisca nel nulla. Una dolorosa consapevolezza s’impadronisce della mia mente. Siamo soltanto meteore che s’incrociano in un frammento dello spazio/tempo e poi si perdono per sempre. Non c’è possibilità di autentico incontro, tantomeno di duraturo amore. Ognuno è trascinato verso l’abisso da un solitario destino individuale. Proseguo nelle cervellotiche congetture e quasi non mi accorgo che la donna è già in piedi sulla porta. Intanto, il treno sta rallentando per entrare in stazione… Dio! Che faccio? La sto perdendo… Il mostro d’acciaio si arresta con un clangore di freni. Le porte si spalancano e lei fa per muoversi… Ma prima di uscire, si gira e mi guarda un’altra volta, forse per l’ultima. Leggo una scintilla di desiderio nelle sue iridi d’antracite. E’ solo un’allucinazione? Sarà quel che sarà. Non capisco più nulla. Sono stordito, ipnotizzato, direi. Mi muovo anch’io, come un automa trascinato da una forza misteriosa, teleguidato da una potenza esterna irresistibile… E la seguo.

I

 Il vespro sopraggiunge all’improvviso. Le tenebre calano sulla città come una coltre soft che opacizza piazze e palazzi, assediati dalle ombre. Quando sono entrato nella metropolitana la luce era ancora accecante, ora che ne sono fuori e cammino a passo lesto da una decina di minuti, la luce sta scemando. Le strade si stanno svuotando dal traffico caotico delle ore di punta e la città scivola dolcemente verso la notte. Sarà una notte di sogni o d’incubi? La donna del treno avanza davanti a me. E’ regolare ed elegante nell’incedere. Non si è più voltata per controllare se qualcuno le stia dietro. Sembra assorta nei pensieri, estranea a ogni cosa. Ma io sono convinto che lei avverta la mia presenza come un animale avverte il predatore in agguato. Anzi, che voglia essere seguita. Per quale motivo? Lo scoprirò presto. Vedremo chi è il predatore e chi la vittima. Intanto, realizzo che si sta dirigendo verso il parco. Forse, sarebbe meglio lasciarla andare e cambiare strada. Una voce nel cervello, però, mi dice di non abbandonare il campo. Adrenalina e rischio mi accendono il sangue. Che cerco, cosa penso di fare con lei? Non so. Mi affido all’istinto. Decida il Fato! All’ingresso del parco, lei si arresta. Rimane di spalle e attende il mio arrivo, almeno è quello che spero. Magari ha un appuntamento con qualcuno. Non ho considerato l’ipotesi di un fidanzato. Non vorrei trovarmi in situazioni imbarazzanti. O forse cerco proprio quelle. Emozioni forti che disintegrino la noia di un’estate incombente, senza meta e senza amore.

Le sono alle spalle, quasi sfioro il suo corpo. Aspetto una reazione. Passano i secondi… Nulla! Poi, lei mi prende la mano e si gira lentamente. Di nuovo quello sguardo di fuoco, occhi di brace che trafiggono l’anima. “Vieni con me e non dire una parola”, sussurra. Obbedisco. Ho un groppo alla gola e non potrei parlare comunque. Mi conduce verso i confini del parco, laddove la vegetazione è più fitta. Camminiamo affiancati, mano nella mano, come due fidanzati. Adesso sorride… Lancia occhiate dolci e… sorride. Un cambiamento sorprendente. La tensione si dissolve, ma non oso chiederle quali siano le sue intenzioni. Scorgo un platano maestoso e una panchina malridotta ai margini del recinto che separa dal bosco. E’ proprio lì che siamo diretti, ora lo capisco. In giro non vedo nessuno. Si sdraia sulle assi di legno, apre le gambe e mostra il fiore di carne imperlato d’umore, scostando il minuscolo perizoma. Mentre continua a sorridere e a inchiodarmi con gli occhi, mi tira a sé. Fa scorrere lo zip e caccia fuori il membro. Ce l’ho tosto come il legno. “Dai, mettimelo dentro, ho bisogno di te”, sibila. Non ci vedo più. Ho gli occhi chiusi quando sento il morso dolce della vulva, elastica e succosa, che aggancia il pene e inizia a massaggiarlo ritmicamente. E’ una galoppata verso un voluttuoso abisso, la nostra. La donna del treno si muove in sintonia con i miei affondi, rantola dal piacere, geme e ansima, accelera i colpi del bacino con le gambe allacciate intorno alla mia schiena. Ho la netta sensazione che stia per godere. Esigo che l’orgasmo ci colga all’unisono, nello stesso istante. L’idea dell’oblio condiviso mi attraversa la psiche come una scarica elettrica. Sto per venire anch’io. La magia dell’eros sta per compiersi, quando sento dietro, sulle reni, una strana carezza. Non è una carezza. E’ un taglio! La lama incide la carne. Poi, un bruciore seguito da un liquido caldo che si sparge sui glutei. “Cazzo! Cos’è?”, impreco fra i denti. “Dio, è sangue!”. Intanto, lei godeeeee con un lamento acuto e prolungato, accompagnato da intense contrazioni. Ho il cuore a mille, piacere e dolore fusi insieme si impadroniscono  dei miei nervi infiammati. Con la coda dell’occhio intravedo il braccio destro di lei che si stacca dal mio corpo e si leva in alto. Impugna un arnese metallico. E’ un rasoio che sta per abbattersi sul mio collo e reciderlo di netto. Deve averlo sfilato dalle autoreggenti. “Cristo, vuole uccidermi!”. Sono ancora dentro di lei, ma riesco a bloccarle il braccio con la sinistra, mentre con la destra le stringo il suo, di collo. “Maledetta vampira!”. Lottiamo avvinghiati come forsennati. Lei tenta di colpirmi con il rasoio, io serro la carotide con forza crescente. Andiamo avanti così per alcuni secondi, per qualche minuto. Non lo so. Perdo la cognizione del tempo. Poi, d’amblais, un rantolo rauco, questa volta di agonia, segna la fine del combattimento. Gli occhi di fuoco si spengono. La donna del treno si accascia sulla panchina come una bambola di pezza, priva di vita.

II

Le prime luci dell’alba mi ridestano da un sonno di piombo. Un torpore che ha il sapore dell’Oltretomba. Sono disteso sul tappeto del soggiorno, vestito e con la camicia inzuppata di sangue. La ferita brucia un po’ meno. Non so come ho fatto a raggiungere la casa. Ricordo solo le gambe tremanti, il timore che cedessero. Lo stordimento e la testa ronzante mi hanno accompagnato sino al pianerottolo del mio appartamento. Ho aperto la porta e sono crollato, esangue, svenuto. Sono vivo per miracolo e non conosco neppure il nome della donna del treno. Domani, i giornali scriveranno che un mostro ha violentato e strangolato una povera ragazza indifesa in un parco pubblico.

Raoul Mendoza

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