SHAID
“Il martire avrà il perdono al primo fluire del suo sangue; gli verrà mostrato il suo seggio in paradiso, sarà decorato con i gioielli della fede, sposato alle più belle, protetto dalle prove nel sepolcro, garantito della sicurezza nel giorno del giudizio, un rubino più prezioso di tutto questo mondo e di tutto il suo contenuto, sposato a settantadue delle più pure urì (le più belle del paradiso) e la sua intercessione sarà accettata per conto di settanta suoi parenti”.Hadith 824-829
“La smetta di truffare il condominio! Il consuntivo che lei ha presentato all’assemblea è criptico, zeppo d’incongruenze e di buchi neri. Domani mattina, i miei avvocati consegneranno un esposto alla procura della Repubblica per denunciare le sue malversazioni. Ha capito, caro avvocato De Rosa? Lei ha finito di farla da padrone in questo stabile…”.
“Questo è troppo! Lei ha passato il segno… Mi sta offendendo e calunniando. Non tollero più i suoi insulti. Sarò io a procedere contro di lei per vie legali. Esca immediatamente da questa sala. L’assemblea deve continuare e approvare il bilancio…”.
“Non mi muovo di qui…Lei non potrà tapparmi la bocca. E’ giusto che tutti sappiano cosa ha combinato in questi anni. Non mi lascerò intimidire dalla sua arroganza…”.
Il diverbio aveva raggiunto ormai il punto di rottura. I due uomini si fronteggiavano, paonazzi, come se stessero per sbranarsi. Non parlavano. Latravano. Nella saletta, intanto, circa una ventina di persone assisteva allo spettacolo, attonita e silenziosa. Ma l’irritazione cominciava a montare nell’animo di ciascuno. Vedendo che la situazione non si sbloccava, che l’amministratore De Rosa aveva gli occhi di fuori e che il generale Malerba non desisteva dalla sua arringa all’acido muriatico, non avendo alcuna intenzione di abbandonare il locale della portineria, all’interno del quale di solito si riunivano le assemblee condominiali, diversi inquilini iniziarono a mormorare. Prima, sommessamente, poi sempre più intensamente, in crescendo. In breve, il brusio si tramutò in un grido, ritmato e urlato all’unisono, come allo stadio: “Fuori! Fuori! FUORI! FUORI!…FUOOORI!”
Vistosi circondato e avversato da tutti, Malerba si catapultò all’esterno della portineria, nel cortile sul quale si affacciavano le cinque ali dello stabile. Al centro, trasmetteva un po’ di frescura, ingentilendo il grigiore della pietra, un giardinetto ben curato, con aiole e alberi d’alto fusto, arricchito da una fontanella zampillante.
Il generale appariva stravolto, digrignava i denti in una smorfia grottesca e insieme satanica, le pupille erano dilatate, i globi iniettati di sangue. L’enfisema polmonare aggravava il fiatone che lo stava soffocando. Sembrava una fiera che avesse mancato la preda, dopo averla inseguita per chilometri. Un passante avrebbe chiamato la guardia medica, temendo che l’anziano signore stramazzasse al suolo, fulminato da un ictus. Ma, invece, Giorgio Malerba si riprese. Appoggiato a un albero, respirò profondamente iperventilando, per far defluire la pressione sanguigna. Scatarrò, liberandosi i bronchi, poi sibilò un anatema: “Bastardi! Me la pagheranno tutti cara. Sarò implacabile!”
II
Sdraiato di tre quarti sul divano del soggiorno, dopo aver tracannato una pinta di Moretti Baffo d’Oro, il generale ansimava, avvolto nella penombra. Nell’appartamento acquistato in un quartiere periferico della capitale, subito dopo essersi ritirato in pensione, le persiane erano sempre quasi del tutto serrate, lasciando filtrare solo qualche flebile raggio di sole. Sul campanello della porta d’ingresso non figurava alcun nome e neppure era presente un’etichetta sulla cassetta delle lettere posta nell’androne antistante. Giorgio Malerba viveva come se fosse in clandestinità. Non si concedeva il lusso neanche di un cellulare o di un apparecchio fisso in casa, terrorizzato com’era dalle intercettazioni telefoniche. Comunicava solo a voce e con i pizzini, come Bernardo Provenzano. Forse, in conseguenza del suo passato di ufficiale dei granatieri di Sardegna, poi comandante di reggimento e infine agente operativo dell’intelligence militare in Libano e nel Medio Oriente agli ordini del mitico colonnello Giovannone, con l’età aveva sviluppato una sindrome paranoide. Scorgeva complotti e minacce ovunque, fantasticava di nemici immaginari, di spie che lo sorvegliavano, anche ora che aveva mollato il servizio attivo. Forse qualche ex KGB lo stava cercando – congetturava fra sé sospettoso di ogni cosa gli sembrasse fuori posto – oppure antichi rivali del SISMI lo volevano ancora fottere, per non parlare degli arabi. Di quelli bisognava sempre temere.
Sbuffava, continuava a scatarrare e masticava moccoli, facendo smorfie nel buio. Non si era ancora del tutto riavuto dallo scontro con De Rosa, almeno emotivamente. Negli ultimi tempi, la sua struttura psicologica era divenuta più fragile e caotica. Ogni piccola contrarietà incideva pesantemente sul suo sistema nervoso, provocando reazioni esasperate e sproporzionate. Attorno a sé aveva fatto il vuoto. Diffidava di chiunque. Non incontrava la ex moglie da un decennio, dell’unico figlio aveva perso le tracce a seguito di furiose liti, amicizie autentiche non ne aveva mai coltivate. Si circondava soltanto di conoscenze occasionali, che tentava di blandire e stupire con i racconti di avventure iperboliche, per poi strumentalizzarle per fini molto più infimi e banali: farsi accompagnare dal dottore; complottare contro l’amministratore, partecipare a qualche giocata del lotto, mandare qualcuno a fare la spesa in sua vece. All’interno del condominio aveva radunato un manipolo d’inquilini scontenti, egemonizzandoli con l’eloquio imperioso e categorico di cui era capace. Nient’altro che un pugno di poveri disgraziati, di mezze figure, fra cui anche degli psicolabili: un imbianchino, un ragioniere cornuto, un ex truffatore gravato dai debiti e assillato dai creditori, un pensionato storpiato dall’artrite e dall’arteriosclerosi, un tassista nevrotico esaurito dai turni di notte. Li utilizzava come massa di manovra per tentare di scalzare lo strapotere dell’avvocato De Rosa. L’incarnazione stessa del Male ai suoi occhi allucinati. Giocava, così, a fare il duce di una squinternata armata Brancaleone.
Per completare il rilassamento, cominciò a dondolarsi leggermente sul divano, muovendo il busto, roteando il collo e gli arti superiori, giacchè soffriva anche di artrosi cervicale. In certi giorni, quelli più umidi, rimaneva paralizzato nel letto perché la schiena gli inviava, a ogni minimo spostamento, fitte da togliere il respiro. Doveva allora ricorrere a massicce dosi di Voltaren e di Aulin. Altre volte, durante le passeggiate sempre più rare che si concedeva intorno all’isolato, era costretto a sorreggersi con un bastone sormontato da una vistosa impugnatura d’argento. Zoppicava, si fermava, muoveva qualche passo di nuovo, sputava, malediceva il destino che lo aveva ridotto in quel modo, memore degli antichi fasti, quando batteva in lungo e in largo i quattro angoli del pianeta per difendere la sicurezza nazionale, sfidando minacce di ogni genere.
Gli esercizi “ginnici” non durarono a lungo. Stufo di tutto, amareggiato per il match appena sostenuto, che lo aveva visto battere in precipitosa ritirata, afferrò con rabbia il telecomando e cliccò in direzione dello schermo. L’immagine comparve dopo qualche secondo. Il mezzo busto del telegiornale stava sciorinando le notizie del giorno. Alzò il volume giusto in tempo per cogliere due avvenimenti che catturarono la sua attenzione.
“Al Jazeera – recitava la voce stentorea dello speaker – ha diffuso un video nel quale il n. 2 di Al Qaeda minaccia l’Occidente di altri spaventosi attentati. Il medico egiziano Al Zawahiri ha infatti promesso che i traditori e i nemici dell’Islam saranno sgozzati come cani, mentre il pugno di Dio si abbatterà sugli infedeli che continueranno a calpestare la Terra Santa”. La foto del barbuto e accigliato figuro dal turbante bianco si materializzò sullo schermo, come un’icona sinistra e insieme grottesca, a ricordarci che la Modernità non riesce mai del tutto a liberarsi dalle scorie dell’oscurantismo e del fanatismo. Che la ragione non riesce mai ad averla vinta completamente sulla follia. Seguì un’altra notizia dello stesso tenore, quasi l’applicazione pratica dei proclami deliranti poc’anzi uditi.
“Baghdad. Alla guida di un camion imbottito di tritolo, un kamikaze si è fatto esplodere contro una caserma della polizia irakena. 35 i morti, centinaia i feriti, fra cui anche donne e bambini che affollavano un mercato adiacente”.
Velenoso, Malerba si lasciò sfuggire un commento a voce alta: “Così si fa! Oggi sono rimasti solo loro ad avere i coglioni. Sanno uccidere. Sanno morire, senza piagnistei. L’Occidente ormai è finito, da quando ha cresciuto generazioni di ricchioni e di cialtroni rammolliti, capaci solo di giocare con i videogame e i telefonini… Con le pistole dovrebbero giocare… ‘Sti stronzi mammoni, come la Hitler Jungen…Saddam Hussein sapeva come trattare il suo popolo… quello sì che c’aveva le palle! “.
Boffonchiò ancora un po’. Poi, vinto da una stanchezza che lo aveva aggredito lentamente, man mano che l’adrenalina nel sangue era andata scemando, si disse: “E’ meglio coricarsi. Stasera devo essere in forma per l’incontro…”.
III
Toc-Toc-Toc. Tre colpi discreti sul legno. Poi, silenzio. Una pausa. Seguirono altri tre colpi. Silenzio di nuovo. Nell’oscurità dell’androne, la porta si dischiuse appena. Un occhio s’intravide…
“Dai, entrate. Fate presto! – sussurrò una voce imperiosa, ma strozzata – Vi ha visto qualcuno?”
“No, generale, è mezzanotte passata. Non c’è anima viva, né in cortile, né sulle scale”.
“Fate presto! – ripetè la voce – non vorrei che vi vedessero proprio adesso”.
Quattro figure varcarono la soglia dell’appartamento che, sebbene immerso nella semioscurità, faceva capire di essere spoglio e semivuoto. Soltanto un abat jour acceso, stile liberty, consentiva di procedere. Pochi arredi raccogliticci, eredità malconcia di traslochi pregressi, galleggiavano in uno spazio surreale. Un breve corridoio asettico menava in un ampio salone. Niente quadri alle pareti immacolate, né soprammobili, fatta eccezione per un aeroplano d’ottone ossidato e una targa bronzea del reggimento; un divano anni ’70 scolorito; tre scrivanie da ufficio unite e ricolme di documenti, faldoni, cartelline e materiale di cancelleria in quantità; un tavolo da giardino scrostato in più punti; quattro sedie laccate: tutto qui. I congiurati si accomodarono come poterono. Malerba si sistemò dietro il tavolo, con le spalle al finestrone che dava sul giardino. Attaccò subito. Non si disturbò nemmeno a offrire un goccio di Ballatine’s a quei quattro disgraziati strappati nel cuore della notte al tepore dei loro letti.
“Come sapete, la situazione è drammatica. Sono stato cacciato in malo modo dall’ultima assemblea. Il bilancio della frode e dell’inganno è stato approvato, nonostante abbia inviato preventivamente diversi promemoria a tutti i condomini, contenenti la chiara spiegazione delle ruberie effettuate dall’avvocato Agostino De Rosa. Che fare a questo punto? Gli accoliti dell’amministratore controllano l’assemblea. Siamo minoritari ed emarginati…”
“Ma, generale, non le sembra di esagerar…”, un ospite tentò di interloquire.
“Faccia silenzio! Non mi interrompa. Si ricordi sempre che sta parlando un ufficiale generale, cui deve il massimo rispetto, non un suo amico del bar. Qui non dibattiamo di calcio, ma di cose serissime che attengono al nostro futuro. Ha capito? Avete capito tutti?”, ribattè acido e perentorio Giorgio Malerba, come se si trattasse di una riunione dello stato maggiore nella quale un subalterno avesse osato contraddirlo durante la relazione introduttiva.
“Scus…scu… scusi”, tartagliò l’imbianchino Vito Santini. Un altro sguardo al fulmicotone lo zittì definitivamente. Un silenzio ancor più plumbeo calò sulla sala, gelando gli astanti. Una lunga pausa, poi il generale riprese la prolusione:
“Se la situazione è drammatica, come dicevo prima di essere interrotto, la strategia non può che essere dello stesso tenore, vale a dire drastica, risoluta e assolutamente incisiva. Siete d’accordo?”. Si arrestò in attesa della risposta. I quattro si guardarono, come a sincerarsi che l’invito a esprimere un parere non fosse un tranello. Poi, il tassista Amedeo Gergotti, che aveva più fegato degli altri, prese la parola:
“Ho dei dubbi, direi che se non conquistiamo la maggioranza dei millesimi, non potremo mai mandare a fanculo De Rosa…tutto il resto è solo una gran cazzata che ci farà perdere tempo… In più ci odieranno tutti!”
“Molto bene, Gergotti – replicò sarcastico il generale, sfoggiando un sorriso mefistofelico– vedo che non ha capito proprio nulla della situazione e, soprattutto, del da farsi. Complimenti – calcò la mano – Lei è uno stratega perfetto, in battaglia avrebbe fatto massacrare tutti i suoi uomini. Qui occorre, invece, una manovra a tenaglia. Da una parte – come ho già provveduto – agiremo per via legale con un ricorso al TAR e un esposto alla Procura della Repupplica, per denunciare gli illeciti penali del De Rosa. Attendo, a partire dalle prossime 24 ore, proprio l’esito di questo ricorso. Dall’altra, adotteremo le tattiche degli insorti iracheni, rendendo ingovernabile il condominio e dimostrando come questa amministrazione non sia all’altezza del suo compito. Pensare di conquistare la maggioranza dell’assemblea, al contrario, è follia. L’amministratore e i suoi scherani tengono in pugno gli inquilini… Sono tutti corrotti. Mi sono spiegato bene?”, Malerba aumentò il tono di voce per enfatizzare il piano di battaglia. Intanto, con uno sguardo penetrante scandagliava i volti dei congiurati, cercando di decifrarne le intenzioni e di indurli all’obbedienza. I quattro rimasero a lungo muti, scambiandosi occhiate interrogative. Poi, il ragionier Sgarlati ruppe il silenzio: “Ma che dovremmo fare, in sostanza?”.
“Bella domanda, Sgarlati, lei è sempre stato un elemento prezioso in questa partita, sin da quando mi ha fornito il supporto tecnico per redigere il ricorso. Senza il suo aiuto non sarei stato in grado di smascherare i trucchi contabili del De Rosa – si fermò un attimo per prendere fiato e scatarrare, quindi riprese con più lena di prima – Avvicinatevi… Vi prego, avvicinatevi!”.
Intorno al tavolo si formò un capannello. Quattro ombre si strinsero al leader supremo in attesa del Verbo. Lui iniziò a sussurrare al limite dell’udibile. Gli bastarono 3 minuti per illustrare il piano. Quindi, tacque e si scostò dal gruppo, rimanendo impassibile con una smorfia di livore scolpita sul volto. Gli altri sembravano statue di gesso, inespressive e prive di volontà.
IV
“Pronto… Pronto…Mi sente, avvocato?…”
“Chi è? Chi parla?”, rispose una voce roca che pareva provenisse dall’Australia.
“Sono Michelino, il portiere. Qui, nel condominio, è successo un fatto curioso… Non so come definirlo… C’è bisogno di lei”.
“Che vuoi dire? Spiega, non farmi stare sulle spine!”
“Stamattina, quando ho fatto il primo giro per innaffiare il giardino, ho trovato tutte le scale e gli androni interni e pure gli ascensori tappezzati da manifesti con alcune scritte cubitali a pennarello. Sono insulti contro di lei. Del tipo: “AMMINISTRATORE LADRO. VATTENE!”; “L’AMMINISTRAZIONE SI DEVE DIMETTERE. AVETE RUBATO TROPPO!”; “NON NE POSSIAMO PIU’, NON RIUSCIAMO A FARE LA SPESA PER PAGARE IL CONDOMINIO. DE ROSA SPARISCI O TI DENUNCIAMO!”; “DE ROSA PER TE L’UNICO FUTURO E’ LA GALERA”…
De Rosa riflettè qualche secondo, poi disse: “Michelino, fammi il favore, comunica con un avviso a tutti i condomini che è convocata l’assemblea per dopodomani, stessa ora, stesso luogo, dell’altra volta. Ordine del giorno: vandalismo nei locali condominiali. Rimuovi, senza distruggerli, i manifesti e conservali accuratamente. Sono il corpo del reato. Intanto, io chiamo la stazione dei carabinieri per denunciare il fatto. Bisogna fermare quello squilibrato di Malerba. Non può essere che lui l’autore di questa pagliacciata. Mi hai capito bene? Fammi sapere se succedono altre cose”
“Certo, certo, avvocato. Procedo immediatamente”. Messa giù la cornetta, Michelino si lanciò di corsa in direzione del cortile. Doveva sbrigarsi. Doveva togliere tutto, prima che iniziasse l’esodo mattutino degli inquilini verso le scuole e i posti di lavoro.
V
La busta gialla faceva capolino dalla buca delle lettere. Malerba se ne accorse subito. Stava andando a comprare il giornale e sperava di trovarsi di fronte lo spettacolo trionfale della sua opera realizzata: decine di tazebao disseminati per tutto lo stabile, tramite i quali il Mascalzone della Cristoforo Colombo fosse stato sbugiardato e consegnato al pubblico ludibrio. Ma non era così. Michelino, quel servo beota – pensò – aveva fatto il miracolo, ripulendo le scale e ogni altro angolo del palazzo in fretta e furia, prima che occhi indiscreti potessero vedere e valutare. La delusione fu cocente per il generale. Ma, come se non bastasse, un’onta ancora più bruciante lo attendeva.
Afferrò la linguetta gialla che scaturiva dalla fessura e tirò su, di scatto. Il plico venne alla luce. Su un dorso recava la scritta: “Avvisi giudiziari – Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio. Destinatario: Generale Giorgio Malerba. Causa n. 45397/2007”.
Colto da tremore nervoso, con il cuore in gola, decise di rientrare in casa immediatamente. Rinunciò pure al quotidiano, un rito sacro per lui. Non riuscendo a controllare gli arti e l’affanno che gli opprimeva il centro del petto, si accasciò su divano. Rimase una manciata di minuti immobile, madido di sudore. Poi, riacquistata una relativa e provvisoria calma, squartò la busta e mise mano al contenuto. Il plico era composto da diversi fogli. Il più importante era l’ultimo, quello del dispositivo della sentenza. Lesse avidamente come se volesse divorare con gli occhi la carta che teneva in mano. Il testo recitava così: “Ricorso non ammissibile per manifesta infondatezza delle motivazioni addotte dalla parte istante”.
Si sentì come se il becchino gli stesse inchiodando in faccia il coperchio della cassa e lui non potesse urlare al mondo di essere ancora vivo. Ebbe solo la forza di formulare un pensiero: “A mali estremi, estremi rimedi”. Esausto, scivolò in un dormiveglia gravido di oblio.
Non andava mai fuori la sera. Quel giorno fece uno strappo alle regole che si era tanto rigidamente imposto. Uscì all’imbrunire, confidando nella complicità delle tenebre. Tornò tardi, vinto dalla stanchezza. Si cambiò. Indossò un pigiama gualcito, ma invece di buttarsi subito sul letto, iniziò a lavorare alacremente.
VI
Tepore e sudore. La sveglia gracchiò alle 6.30. Il generale aprì gli occhi di scatto, come i vampiri nelle bare degli horror movie. In realtà non aveva praticamente dormito. Si era limitato a vegetare alcune ore, con la coscienza appannata, ma non del tutto sopita, in attesa dell’alba. Ora, però, non si sentiva stanco, anzi i dolori erano spariti e uno strano vigore gli attraversava le membra. Raggiunse il bagno. Si liberò del pigiama zuppo. Esagerava sempre col calore, temendo di beccarsi le fitte alla schiena, ma spesso otteneva l’effetto contrario. Per il troppo caldo, sudava copiosamente e il sudore gli si asciugava addosso, riacutizzando i reumatismi. Si cacciò sotto la doccia, ricavandone un benessere immediato. Poi, iniziò a sbarbarsi. Al termine della rasatura, si cosparse il viso con un’acqua di colonia orrenda, acquistata in un hard discount. Rientrò in camera da letto, dirigendosi spedito verso l’armadio a muro. Ne trasse un abito speciale avvolto nel cellophane. Di tanto in tanto, sorrideva e faceva smorfie. Gli tremava pure la palpebra sinistra. Cominciò a vestirsi lentamente, con cura.
VII
La sala era gremita. Oltre una cinquantina di persone era assiepata contro i muri, occupando ogni spazio praticabile, dato che le sedie non bastavano per tutti. Dietro un’improvvisata presidenza, l’avvocato De Rosa stava in piedi, cercando di governare la platea e di placare il cicaleccio molesto che si produceva continuamente.
“Scusate… Scusate, fate silenzio! – intimò con un vocione stentoreo – E’ bene iniziare questa assemblea, perché abbiamo molte cose da discutere. Come sapete, è accaduto un fatto a dir poco incr…”, non finì la frase. Dall’ingresso della portineria apparve una figura inquietante e insieme bizzarra. Si ammutolirono tutti all’improvviso, anche l’avvocato rimase senza parole.
Il generale Giorgio Malerba sfoggiava l’alta uniforme, quella delle occasioni solenni, e sorrideva lanciando a destra e a manca sguardi benevoli. Sembrava un’altra persona, non ostentava i consueti atteggiamenti scostanti e sprezzanti verso la “plebaglia” del condomino.
“Come mai, lei qui… dopo tutto quello che è successo? Come osa? E poi vestito in quel modo. Dove crede di essere, alla parata del 2 giugno?” lo apostrofò, dopo qualche attimo di esitazione e sgomento, l’Amministratore.
“Tranquilli, niente paura – replicò senza scomporsi Malerba – Sono venuto in pace a portare la pace. Il TAR ha bocciato il mio ricorso, così ho preso atto di essere in torto. Ho deciso, perciò, di porre fine a questo contenzioso, che tanta energia e tempo sta sottraendo a tutti, soprattutto a lei, caro avvocato. Quanto al mio abbigliamento, la spiegazione è semplice: quando si firma un armistizio, bisogna indossare la tenuta adeguata. L’alta uniforme, appunto”. De Rosa continuava a osservarlo sbigottito, non riuscendo a capire se si trattasse di una burla di pessimo gusto o di qualche micidiale inganno, ma non sapeva come reagire. Allora domandò: “Generale, lei sta scherzando, oppure ha intenzioni serie?”.
“Ecco, l’ha detto. Intenzioni non serie, bensì serissime! Mi lasci dare a tutti un segno inequivocabile della mia buona volontà. Acconsenta che io possa avvicinarmi e abbracciarla, davanti ai nostri cari condomini, a suggello di un nuovo patto di concordia e di collaborazione”.
Di fronte a questa incredibile richiesta, De Rosa continuava a mostrarsi spiazzato, incerto. Fu il pubblico a sbloccare la situazione. Il coro partì all’unisono, come l’altra volta. Battendo le mani ritmicamente – a testimonianza che il virus calcistico avesse ormai irrimediabilmente intossicato le coscienze – l’assemblea scandì sempre più forte: “Pace…Pace… PACE… PACEEE…”. Intanto, Malerba avanzava, mentre l’Amministratore era impietrito. Una scena grottesca. Ma l’apice si toccò quando il generale, giunto a pochi centimetri dall’avvocato, gli si gettò letteralmente addosso, stringendolo forte, come se volesse stritolarlo.
“Ma…ma… che fa? La smetta, così mi soffoca! Mi lasci!”
“Con un ghigno da camicia di forza, Malerba sibilò: “Non si preoccupi, fra poco non sentirà più nulla”. Con il braccio sinistro continuava a serrarlo, con il destro andò a tirare un anello metallico dentro la giubba. Si udì un impercettibile CLIC. Seguì un nanosecondo di vuoto acustico e pneumatico, come se il tempo si fosse fermato… Poi, la forza stessa del tuono si materializzò dentro la saletta. Lo scoppio fu devastante. Risucchiati nell’abbraccio mortale, i due rivali furono letteralmente frullati e polverizzati. L’onda d’urto fece strage degli inquilini, mutilando corpi, spappolando crani, sradicando arti. Solo il portiere Michelino si salvò, perché era uscito dalla stanza cinque minuti prima per innaffiare il giardino e, al momento della deflagrazione, si trovava a oltre 30 metri di distanza. La portineria fu rasa al suolo, l’attiguo alloggio, gravemente danneggiato. Anche il primo e il secondo piano della scala A risentirono pesantemente dell’esplosione. Un fumo nero, denso di polvere e di calcinacci, invase l’intero stabile. In lontananza cominciarono a risuonare le sirene delle ambulanze e delle auto della polizia. Il martirio dello shaid si era compiuto. Il generale Giorgio Malerba aveva portato a termine la sua ultima missione.
Aldo Musci