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U.S.A., marzo 2020

18 Marzo, 2020

Pubblichiamo un testo del professor Claudio Taddei, esperto di geopolitica e di cose americane

Il pensiero di gruppo tende a fuorviare. Negli USA esso impedisce a circa metà dell’opinione pubblica di sostenere Trump nel suo storico tentativo di allontanare la nazione da una distruttiva condizione di confini aperti, di parzialità della giustizia e disonestà dei media, e in molte grandi città di confusione sociale, di diffusione della droga, di insufficiente battaglia al crimine. Troppe menti sono avvelenate dalle ideologie della sinistra politica e dai media al servizio di quelle ideologie. La domanda di punizione per coloro che hanno pensato, diretto e condotto la sovversione, che da oltre tre anni cerca di abbattere Trump, non diviene collettiva, ma appartiene soltanto alla parte migliore della nazione. Politici Democratici, giornalisti, finanzieri, giudici, personaggi dello spettacolo, intellettuali, hanno sostenuto il colpo di stato condotto dapprima con l’indagine Mueller, poi con il falso impeachment; hanno sostenuto e sostengono le aggressioni quotidiane a Trump e ai suoi elettori nei media e nei social media. La più recente aggressione, che ha contorni criminali, riguarda le accuse a Trump di aver sottovalutato l’epidemia del coronavirus di Wuhan, mentre in realtà gli interventi del presidente sono stati tempestivi ed efficaci, a cominciare dalla chiusura del traffico aereo con la Cina a fine gennaio (quando Democratici e globalisti accusarono Trump di “razzismo” nei confronti dei cinesi) e dalla quarantena per chi tornava dalla Cina: dunque ciò che si è fatto tardivamente in Italia e altri paesi dell’UE. Con notizie manipolate, con accuse infondate, con l’immigrazionismo falsamente umanitario, essi vogliono non soltanto destituire Trump, ma indebolire la nazione, cancellare la Costituzione, controllare il discorso pubblico come controllano gran parte dei campus universitari, cioè imponendo il pensiero di gruppo e un’ideologia che si afferma progressista ma è profondamente reazionaria.

 

Per mesi la cospirazione ha cercato di abbattere Trump con l’accusa di aver chiesto uno “scambio” al governo ucraino: gli aiuti USA in cambio dell’indagine sulla probabile corruzione che ha coinvolto cittadini americani (i Biden) nella società del gas in Ucraina. Quello scambio non vi è stato: lo dimostrano la diffusione pubblica delle telefonate di Trump, i documenti ufficiali, la cronologia degli eventi (gli aiuti furono consegnati nel settembre 2019 senza avvio dell’indagine e senza che il governo ucraino fosse a conoscenza di un loro fermo per alcune settimane nell’estate 2019). Ma anche se uno scambio vi fosse stato, non si sarebbe trattato di un illecito: molte cose in politica estera (oltre che molte cose nella vita) impongono uno scambio. Anche con il Messico il governo Trump ha portato avanti uno scambio, cioè l’assenza di tariffe commerciali da parte USA in cambio di una qualche collaborazione del governo messicano sul confine; in questo caso è il risultato, cioè la riduzione dei traffici illegali sul confine, che non piace ai nemici di Trump e dell’America. Non piace, per esempio, ai cartelli della droga che controllano il confine sul lato messicano: come riferisce nel marzo 2020 Mark Morgan, che è a capo della CBP (Customs and Border Protection), il diminuito numero di immigrati illegali che attraversano il confine ha ridotto i profitti dei cartelli, che si fanno pagare dai 3 mila ai 10 mila dollari per ogni migrante a cui consentono il passaggio del confine.

 

La cospirazione accusa Trump di “abuso di potere” perché denuncia la persecuzione giudiziaria verso il suo ex collaboratore Michael Flynn, verso il quale le accuse furono costruite con scopi politici; o perché denuncia la sentenza indecente che condanna a 40 mesi di carcere il pubblicista Roger Stone ad opera di un giudice che è un attivista anti-Trump e di una giuria per tre quarti composta da ex avvocati (attivisti Democratici) dell’indagine Mueller. Come ha preso il controllo di gran parte dell’istruzione, così la sinistra si è impegnata a fare con la giustizia, giungendo a controllare molti distretti giudiziari e la burocrazia del DoJ (Department of Justice). Negli anni di presidenza Obama, per i giudici vi sono state decine di nomine dettate da obiettivi politici. Abbiamo visto giudici, che sono in realtà attivisti politici vestiti con la toga nera, coprire le frodi elettorali (doppi voti, voto concesso agli immigrati illegali e altro) o sancire la concessione del welfare a illegali e piccoli criminali. Abbiamo visto, da quando Trump è presidente, oltre 50 ingiunzioni di tribunali locali per bloccare decreti di Trump, per lo più in materia di controllo dell’immigrazione. Un ostacolo così netto al potere esecutivo non ha precedenti storici.

 

I giudici che hanno trattato i casi di ex collaboratori di Trump come Flynn, o Stone, o Manafort, hanno un’evidente faziosità e non concedono a quelle persone nemmeno i diritti garantiti a un criminale comune o a un terrorista. Se Trump prospetta il “perdono” presidenziale (per Flynn in ogni caso il perdono non è sufficiente, perché è necessaria la piena cancellazione delle accuse), i media alzano le grida al cielo, senza ricordare che Trump ha usato la prerogativa del perdono con moderazione (16 volte) in rapporto per esempio a Obama (oltre 1900 volte); o senza ricordare i reali abusi di potere compiuti da altri presidenti, anzitutto il molto sopravvalutato (perché icona dei liberal) Franklin Roosevelt, che usò l’FBI e altre agenzie governative contro gli avversari politici, fece rinchiudere violando la legge gli americani di origine giapponese e instaurò il sistema dei sussidi sociali come strumento di consenso: sistema perfezionato e completato da Lyndon Johnson e poi da Obama.

 

Fino a quando la corruzione dei media più diffusi lo consente, il sistema delle false accuse e dell’informazione distorta, che ha condotto al falso impeachment e all’indagine Mueller, resterà attivo. Come Rush Limbaugh diceva già dieci anni fa, l’informazione che arriva dai media USA più diffusi (e che, aggiungo, viene riprodotta in Italia e in Europa) è un prodotto assemblato tra i poli di New York City e Washington, indifferenti se non ostili all’America profonda. A conferma che l’etica di una professione non deriva da diplomi e premi riconosciuti, noti giornalisti e pensatori già vicini al GOP (George Will, Bill Kristol, Chris Wallace e altri) si spostano a sinistra per conservare cattedre e incarichi, mentre collaboratori destituiti da Trump (persino uomini a buon motivo stimati per decenni, come John Bolton o John Kelly) trovano consenso nei media più diffusi, e contratti danarosi per i loro libri, con il rovesciare sul presidente critiche inacidite. L’accusa a Trump di abuso di potere è stata ed è una farsa. Al contrario, Trump ha usato fin troppa moderazione su temi cruciali (il muro sul confine, l’immigrazione, il welfare). Invece, impugnando l’accusa di abuso di potere, si potrebbe rivedere il giudizio su Franklin Roosevelt, o su Lyndon Johnson. O su Obama: in vista della campagna di rielezione nel 2012, Obama utilizzò come un’arma l’agenzia delle Entrate (IRS) per sopprimere il Tea Party e impedire che si ripetesse il successo del Tea Party nelle midterm del 2010. L’IRS decimò le finanze dei gruppi conservatori e li colpì con penalità fiscali debilitanti. E ci fu altro. Il governo Obama sorvegliò le comunicazioni di giornalisti avversi e li investì con strumentali fughe di notizie. Obama negò al Senato il ruolo previsto dalla Costituzione, non chiedendone l’approvazione per il trattato sul nucleare iraniano, e portò avanti lo scellerato accordo con l’Iran senza informazioni pubbliche. Obama ottenne che la Commissione sul controllo dei finanziamenti elettorali ritardasse, fino ad alcune settimane dopo le elezioni del 2012, l’annuncio della più alta penalità mai emessa per infrazione alla legge elettorale (oltre 300 mila dollari), per non aver rivelato le fonti di grosse donazioni. Obama ottenne che il direttore della CIA Petraeus annunciasse le dimissioni due giorni dopo le elezioni del 2012, a seguito di un modesto scandalo privato che servì a preparare la nomina al vertice della CIA di Brennan, poi divenuto l’anima nera della cospirazione contro Trump e rimasto impunito benché abbia mentito sotto giuramento in Congresso. Obama e Hillary, e i loro servi come Susan Rice, nascosero la verità sui fatti di Bengasi, attribuendoli, con l’aiuto dei media, a un video anti-islamico pubblicato negli USA, anziché a un atto di terrorismo di cui vi erano state indicazioni. Sono tutti fatti che possono suggerire l’accusa di abuso di potere e una richiesta di impeachment, a differenza delle correttissime relazioni di Trump con l’Ucraina e il suo presidente.

 

Almeno dagli anni Sessanta del Novecento, quando sulle elezioni a Chicago avevano un peso gli eredi di Al Capone e dei suoi gangster, i Democratici sono maestri nel distorcere le elezioni. E almeno dalle presidenziali del 2012, che confermarono Obama, e poi in misura decisiva nelle midterm per il Congresso del 2018, alla distorsione hanno contribuito le frodi elettorali. Frodi che vanno dai doppi voti nei quartieri neri di molte grandi città al voto concesso agli immigrati illegali, dalla mancata identificazione di chi vota alla pratica della raccolta dei voti casa per casa e alla manipolazione dei voti giunti per posta. Tutto ciò avviene in città, contee e stati controllati dai Democratici: gli stati più popolosi e le città più grandi. Inoltre il tema delle frodi nel voto è divenuto di decisiva importanza in stati che hanno dato la presidenza a Trump nel 2016, come Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, e in stati dove nel 2020 Trump potrebbe intaccare il potere dei Democratici, fondato su smodata e non selezionata presenza di rifugiati e di immigrati, cioè su un tendenziale cambio di popolazione, come il Minnesota. Si può ricordare che in Michigan o in Wisconsin, nel 2016, Trump ha vinto per meno di 50 mila voti: in entrambi gli stati vi sono denunce in base alle quali si chiede al governo locale di rimuovere dai registri di voto oltre 200 mila nomi, abusivi o fraudolenti. Il tema delle frodi elettorali travestite da legislazione di stato (per esempio l’automatica registrazione per il voto a chiunque riceva la patente di guida) è di proporzioni enormi e non sormontabili in California o a New York, ma è importante anche in stati più piccoli. Se i Repubblicani e Trump non trovano una soluzione prima del novembre 2020, esiti rovinosi potrebbero seguirne.

 

Della distorsione del voto fa parte l’uso tossico delle accuse di razzismo per imporre la cosiddetta politica dell’identità, per cui chi è nero, o ispanico (o gay, o impiegato statale, o altro), dovrebbe per interesse votare Democratico; e ne fa parte lo sprovveduto o disonesto elogio della diversità culturale come valore in sé. Tra gli strumenti più recenti della distorsione vi sono l’annuncio da parte del governo della California (stato sull’orlo della bancarotta finanziaria e in difficoltà nel garantire le condizioni igieniche nelle maggiori città) della sanità gratis concessa agli immigrati illegali e a chiunque arrivi nello stato; o la recente applicazione, da parte della città di New York, di modifiche al “rilascio su cauzione”, che ha fatto uscire di prigione e messo in strada centinaia di delinquenti pericolosi; o in città e stati Democratici la ridotta penalità – già attuata dal governo Obama come amnistia verso 1500 spacciatori neri, che ebbe gravi conseguenze in città come Baltimora e Filadelfia – verso lo spaccio di droga, considerato un “crimine non violento”: per cui se uno spacciatore viene arrestato dalla polizia, può accadere che qualche ora dopo un giudice lo metta fuori prigione. Si tratta di politiche che incontrano favori in molti quartieri e gruppi sociali: politiche poco pubblicizzate e ricambiate dal voto. Si tratta anche di un’ideologia miserabile che tradisce la giustizia e la difesa dei cittadini giusti. La conseguenza percepibile è che molte città governate dai Democratici sono in condizioni di degrado. Mentre Chicago o St. Louis rimangono capitali del crimine, persino città un tempo vetrina dell’America come San Francisco e Los Angeles, o Portland in Oregon, e New York, sono inquinate dalle politiche sociali dei loro governi Democratici, al punto che molti cittadini onesti ne fuggono. In quelle città persino ordinarie conquiste civiche occidentali, come gli impianti sanitari interni alle case, subiscono deroghe.

 

I poteri del presidente e del governo federale sui governi locali sono limitati. Però, fino agli sconvolgimenti portati dalla pandemia del coronavirus di Wuhan, l’intero paese e tutti i gruppi sociali ed etnici hanno ricavato utili dai successi economici del governo Trump, che sono il risultato di un riformismo conservatore: meno regole, meno tasse, più iniziativa economica, più sostegno agli operai delle industrie nazionali, agli artigiani, agli agricoltori. Per la prima volta da decenni, le vistose differenze di reddito nella società sono meno acute, grazie all’aumento dei salari più bassi. Nei grandi numeri economici vi è stata una riduzione del deficit commerciale (ancora ingente, ma sceso nel 2019 da 804 a 610 miliardi di dollari), anche del deficit con la Cina (sceso nel 2019 da 420 a 346 miliardi). Non si è ridotto, invece, il deficit di bilancio e di conseguenza il debito federale, su cui un secondo mandato Trump dovrà intervenire. I successi economici, orientati alle classi sociali più deboli, rendono possibile un riassetto politico, dove il GOP può divenire il partito del lavoro e della gente comune. Lo può fare indicando la perversione sui temi della giustizia e della sicurezza, e gli istinti antiamericani, che prevalgono nel partito Democratico; e lo può fare liberandosi dall’adesione agli interessi della Camera di Commercio o di Wall Street, cioè gli interessi del globalismo immigrazionista. Dunque nel febbraio 2020 ascoltiamo con disagio Mike Mulvaney (che in quel momento è ancora “capo dello staff” della Casa Bianca) affermare che vi è bisogno di immigrati per un’economia che marcia a pieno regime. Anzitutto l’affermazione di Mulvaney non è vera perché, pur con una disoccupazione ai minimi storici, vi sono milioni di americani in cerca di un lavoro migliore o meglio retribuito. In secondo luogo, se non fermano gli eccessi dell’immigrazione legale, Trump e il GOP perdono la possibilità del riassetto politico, perché i salari tenuti bassi dall’arrivo degli immigrati frenano il consenso tra gli operai e i lavoratori a basso reddito, e riducono il nuovo consenso – di cui si parla e che già è limitato dalle abitudini consolidate nel voto – che Trump ottiene tra i neri e gli ispanici non ricchi. Le lobby globaliste che spingono per avere più immigrati hanno interessi divergenti da quelli degli elettori di Trump. Quanto a Mulvaney, tra i problemi con nomine inadeguate che ha avuto Trump, e a cui dovrà rimediare in un secondo mandato, quello del chief of staff è stato tra i maggiori, e dunque applaudiamo la scelta per quel ruolo, nel marzo 2020, dell’ottimo, leale Mark Meadows.

 

Per quanto riguarda deficit di bilancio e debito federale, positiva è la proposta di bilancio presentata, come ogni anno in febbraio, dal presidente. Come ogni anno si tratta solo di una proposta, perché il bilancio lo scrive il Congresso. Però la direzione è corretta: Trump chiede di tagliare la spesa e modificare programmi di welfare gonfi di sprechi e sotterfugi, per esempio condizionando la sanità gratuita (Medicaid) o le abitazioni gratuite all’accettazione di offerte di lavoro. L’obiettivo è di portare in pareggio il bilancio (in 15 anni!). I tagli proposti non riguardano Medicare (la sanità per gli anziani), né le pensioni; ma, esclusa la Difesa e la Homeland, molti dicasteri sono coinvolti, incluso il Dipartimento di Stato, anche per gli aiuti esteri. Il che è giustificato: un Congresso che stanzia soltanto 1,3 miliardi di dollari per il muro sul confine sud, manda aiuti esteri, per esempio, di 5,4 miliardi l’anno all’Afghanistan e di 3,2 miliardi l’anno all’Iraq. Il momento per tagliare la spesa federale è adeguato, perché l’economia è robusta, il settore privato va bene, non servono interventi keynesiani di spesa da parte del governo. Peraltro il bilancio proposto da Trump non è certo restrittivo. La previsione di spesa per l’anno fiscale 2021 è di 4,8 trilioni di dollari, più alta dell’ultimo budget di Obama, quello per l’anno fiscale 2017.

 

Dunque l’allarme per il debito crescente e per un deficit che nel 2019 è stato di 980 miliardi di dollari, cioè oltre il 4% del PIL, è accantonato. Mentre il governo Trump mette in atto programmi sociali che significano nuovo welfare, come il congedo pagato per i dipendenti federali con figli minorenni; mentre si comincia appena a contenere la spesa di welfare per gli immigrati legali e illegali, con le nuove regole, attive dal febbraio 2020, sulla residenza (concessa, se le cause legali avverse non lo impediranno, a chi non sia un “carico” incondizionato sul bilancio pubblico); mentre la spesa per la ricostruzione della Difesa rimane ingente per il terzo anno consecutivo e nuove spese per le attività della NASA nello spazio si preparano; mentre questo e altro accade, e le prospettive sono modificate dagli ingenti fondi stanziati per la pandemia del virus di Wuhan, il pareggio di bilancio rimane un obiettivo lontano, per il 2035. In ogni caso affermare l’obiettivo è in sé positivo. In un secondo mandato, se il GOP ottiene la maggioranza in Congresso, Trump dovrà cercare un governo che sia “conservatore fiscalmente”. Se invece il Congresso sarà controllato dai Democratici, la crescita del debito, a media scadenza disastrosa, non verrà corretta.

 

In politica estera cresce il numero di paesi che cercano alleanze con gli USA. Il rafforzamento della Difesa USA, dopo le debilitanti scelte degli anni di Obama, è la condizione per la stabilità. Rinnovare la forza militare ma usarla solo in caso di reale necessità, è la politica della pace tramite la forza. Non tutte le promesse di Trump ai suoi elettori sono ancora realizzate: l’impegno militare per tenere in piedi il nuovo Afghanistan non è ancora terminato. L’accordo con i talebani e con il governo afghano firmato a fine febbraio 2020, che entro sei mesi ridurrà a 8400 le truppe USA nel paese e poi, entro aprile 2021, dovrebbe riportarle tutte in patria, rimane legato alla fine degli episodi di terrorismo in Afghanistan e dunque alla possibilità, da parte dei talebani, di controllare i vari gruppi armati. In ogni caso un governo USA che in città come New York o Chicago deve combattere, per mezzo dell’agenzia federale ICE, bande del crimine come la efferata MS-13, composta da immigrati centroamericani; un governo USA che sul confine sud subisce infiltrazioni quotidiane (sia pur in numero ridotto rispetto agli anni precedenti) di migranti di cui non si conoscono i precedenti penali né le condizioni sanitarie, non dovrebbe impegnare le proprie forze migliori per procurare stabilità all’estero. La costruzione di nazioni altrui deve avere fine.

 

Su altri temi la correzione di politica estera vi è stata. Trump ha abbattuto premesse non giustificate, tra cui l’ossequio verso organismi non qualificati come il cosiddetto “Consiglio dei diritti umani” dell’ONU, gestito da paesi che sono violatori abituali dei diritti umani, o il Tribunale dell’Aia, che è la versione multinazionale dell’attivismo politico ad opera di giudici parziali negli USA o in Europa. Con la risposta alla pandemia del coronavirus di Wuhan – risposta troppo legata agli interessi del governo cinese –, tra gli organismi della cui azione dubitare va segnata l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Su altri fronti, Trump ha cancellato i cedimenti obamiani verso l’Iran e ha ridotto l’importanza strategica del Medio Oriente. Ha rinnovato con gesti decisivi l’alleanza con Israele. Ha messo fine alla più o meno codarda propensione, prevalente all’ONU e tollerata in Europa, di calunniare il piccolo Israele e mostrare rispetto verso paesi, come l’Iran e la Cina, che usano comprare le opinioni di favore. Con le sanzioni e il contenimento, Trump ha portato il regime iraniano verso la bancarotta; con l’indicare che possibili aggressioni a obiettivi USA o di alleati da parte di chi agisce su delega iraniana, o la conclusione del programma nucleare iraniano, possono condurre a importanti attacchi USA sulle infrastrutture iraniane, ha condizionato e umiliato il regime iraniano.

 

Il più importante cambiamento, di portata storica, introdotto da Trump in politica estera è stato il mettere fine alla tacita benevolenza verso i furti di tecnologia e verso le politiche commerciali predatorie della Cina. In America Trump ha cambiato il discorso pubblico riguardo alla Cina, mettendo fine alla convenzione, iniziata negli USA con la presidenza Carter negli anni Settanta, che il consentire ai governi cinesi il furto di proprietà intellettuale, e l’accettare ingenti sbilanci commerciali da parte USA e sistematici sotterfugi mercantili da parte cinese, avrebbe portato in Cina la libertà e la democrazia. Avrebbe condotto a una Cina il cui neocapitalismo, fornitore di prodotti a basso costo, poteva alimentare i bilanci aziendali anche in America. Nel corso dei tre decenni iniziati con la presidenza Clinton, quella convenzione aveva portato ad accettare il concetto che la Cina fosse destinata a un’egemonia mondiale, almeno economica. Ma mentre le ambizioni del governo di Pechino divenivano smisurate, il suo apparato repressivo all’interno cresceva e la sua invadenza finanziaria all’estero conduceva a un espansionismo non solo commerciale: meno libertà in Cina, più controllo di altri paesi, più acquisizioni di miniere, industrie, immobili, giornali, terreni agricoli. Le tariffe mercantili imposte da Trump alla Cina hanno condotto alla prima fase di un accordo commerciale tra USA e Cina, che è la premessa per un rapporto più equilibrato e più vigilato. Intanto la risposta illiberale del governo cinese alle richieste di Hong Kong e l’occultare, in una delle seriali crisi igienico-sanitarie del paese, la fase iniziale dell’epidemia del coronavirus di Wuhan, favorendone la diffusione, dovrebbe ridurre il favore dell’opinione pubblica verso le ambizioni cinesi.

 

Da oltre un decennio il governo di Pechino appare convinto di avere sempre più in mano le leve globali, grazie ai numeri della popolazione, agli ingenti attivi commerciali, alle riserve di valuta pregiata, a industrie avanzate nel campo dell’elettronica e delle nuove tecnologie; e a un riarmo militare senza limiti di investimento. Il mondo intero ha visto in Cina ferrovie ad alta velocità, nuovi e invidiabili aeroporti e stazioni, scintillanti edifici nelle città della costa. Ciò che il mondo non vedeva erano le malsane condizioni di degrado ambientale di gran parte del paese, la povertà, i metodi persecutori usati dalla gerarchia del partito unico comunista per conservare il potere: gli stessi metodi che mezzo secolo prima, nella Cina di Mao, avevano causato la morte di 30 milioni di persone. I metodi che, almeno dal novembre 2019, consentivano al governo cinese di nascondere per mesi l’epidemia e le origini del coronavirus di Wuhan, con il risultato che centinaia di portatori inconsapevoli diffondevano la pestilenza virale. E i metodi che consentivano al governo cinese di negare a ricercatori e medici occidentali di entrare nel paese per contribuire al contenimento dell’epidemia e allo sviluppo del vaccino (in seguito quel governo permetteva l’ingresso ai più controllabili inviati dell’ONU). La Cina si è arricchita distorcendo il commercio e rubando tecnologia con la stessa impunità con cui nasconde le epidemie o distrugge i dissidenti. L’impegno di Trump nel modificare il rapporto commerciale con la Cina, e nel chiedere conto al governo di Pechino dei sistematici abusi mercantili e dei furti di proprietà intellettuale, ha avuto ed ha un valore storico. Vedremo se i risultati saranno tali da modificare realtà acquisite. Come in altri campi, come con gli eccessi dell’immigrazione legale e il mancato controllo del confine sud, è possibile che l’impresa di Trump e di chi lo sostiene arrivi troppo tardi e non sia sufficiente.

 

In ogni caso, tra le realtà su cui la Cina può temere sanzioni da parte USA per mentire riguardo alle origini della pandemia vi è la politica dei visti; vi sono gli immigrati illegali cinesi fermati sul confine USA con il Messico e rilasciati (1600 negli ultimi 5 mesi, su un totale di 15 mila rilasciati per quella parte di politica del “ferma-e-rilascia” che è rimasta in essere); e vi sono i 400 mila studenti cinesi che affollano le università e i laboratori USA, molti dei quali impegnati in attività di spionaggio.

 

Nei confronti dell’Europa, Trump ha messo in questione alcune cattive abitudini e alcune presunzioni dell’Unione Europea. Ha chiesto una correzione degli sbilanci commerciali derivanti da tariffe asimmetriche e penalità unilaterali applicate da Bruxelles. Di certo tra alleati le aperture devono essere reciproche, e il non facile accordo è l’oggetto di un trattato commerciale che dovrà essere concluso. Trump ha anche chiesto la fine dello squilibrio nei contributi alla difesa comune, con gli USA che da 70 anni pagano il 75% del bilancio NATO: la richiesta sta avendo, sia pur lentamente, qualche successo, e non può essere altrimenti se la NATO deve restare operativa. Gli USA e l’Europa hanno una civiltà in comune, e con essa valori ed esigenze. Come gli USA, l’Europa entra nell’ultima ora utile per impedire che l’immigrazione senza freni e i confini aperti conducano a un irreversibile cambio di popolazione. Come gli USA, l’Europa deve impedire che il contrasto al riscaldamento climatico e la difesa dell’ambiente divengano estremismo antieconomico e invasivo delle libertà civili. Quello del clima è un tema di costante attualità presso l’opinione pubblica. Però nessun risalto ha trovato nei media il rapporto della International Energy Agency che documenta come nel 2019 gli USA abbiano ridotto più di ogni altro paese le emissioni di gas nocivi e diossido di carbonio, mentre le due nazioni più popolose, Cina e India, le hanno aumentate dai già altissimi livelli precedenti. E poiché le autoproclamante élites intellettuali, negli USA come in Europa, hanno un’inclinazione alla condanna della cultura occidentale, esse e i loro media non menzionano i dati reali dell’inquinamento globale.

 

In America come in Europa vi sono politici che annunciano la fine del motore a benzina (ormai pochissimo responsabile di inquinamento, a differenza di altre fonti come il riscaldamento urbano). Nell’era Trump, mentre gli USA hanno raggiunto la piena indipendenza energetica, l’UE è il maggior importatore di petrolio e gas dopo la Cina, ma dalla UE arrivano le accuse più convinte verso i combustibili fossili. L’America che si riconosce nella politica estera di Trump ha finalmente perso interesse per i pantani del Medio Oriente, anche quando sotto la sabbia c’è il petrolio, e non vuole più mandare i propri figli a costruire paesi altrui. L’Europa, invece, ancora fa affidamento su forniture mediorientali e sul fatto che la forza militare USA tenga aperte le vie del commercio per importatori vulnerabili. L’Europa dovrebbe essere grata per l’aumentata produzione USA di gas e petrolio, che allarga l’offerta e abbassa i prezzi. Ciò non significa rinunciare (come chiede, in questo sbagliando, Trump) alle forniture russe, che sono economiche e integrano la Russia all’Europa. Ma i pannelli solari e le turbine eoliche non sono e non saranno il motore unico della produzione europea. E l’ostilità verso l’estrazione in Europa di gas e petrolio con le tecniche del fracking e della perforazione orizzontale – ostilità che rimbalza nelle opinioni di massa – potrebbe essere meno assolutista. Anche per quanto riguarda il demagogico estremismo ambientalista, l’ipotesi di una maggioranza congressuale o addirittura di una presidenza Democratica nelle elezioni USA del 2020 è semplicemente catastrofica.

 

Nelle attuali condizioni di pandemia e in un momento di panico quasi globale, il tema delle notizie manipolate ha un’urgenza considerevole. In relazione all’epidemia, assistiamo a un’operazione di propaganda, vergognosa e criminale, da parte del governo cinese (con assistenza sul web, si dice, di iniziative russe e iraniane) per confondere le origini del coronavirus di Wuhan e darne la responsabilità agli USA. La propaganda, volta a offuscare le proprie azioni con il fondare una realtà alternativa e a macchiare l’immagine degli USA, è in Cina un’iniziativa di Stato. Il portavoce del ministero degli Esteri ha dato il via su Twitter alle insinuazioni infondate; i media cinesi, controllati dal governo, hanno fatto seguito. La Cina ha mobilitato il proprio apparato per la disinformazione, che include i suoi diplomatici all’estero. Con orrore, anziché denunciare l’indegna manovra, i media più diffusi in America e in Europa offrono una sponda di bugiarda sospensione del giudizio. Il loro attirare l’attenzione sulla falsa narrativa di Pechino è di fatto un modo, come in altri casi, per diffondere le menzogne. Come sappiamo, una volta che una menzogna o una calunnia entrano nel circolo mediatico, è quasi impossibile fermarle. La realtà è quella denunciata (il 12 marzo nella sede della Heritage Foundation) dal consigliere per la sicurezza nazionale USA, Robert O’Brien, che ha indicato come Pechino abbia tenuto nascoste, almeno dal novembre 2019, le notizie sull’epidemia di Wuhan e come ciò abbia causato un ritardo (“forse di due mesi”, dice O’Brien) nel contrastarla.

 

Sappiamo che Li Wenliang, il medico cinese che per primò raccontò dell’epidemia di Wuhan, fu arrestato nel dicembre 2019. Un suo rapporto per il numero di dicembre della rivista scientifica The Lancet fu bloccato dalle autorità cinesi. Ma se Li Wenliang, poi morto per il virus – si afferma – nel febbraio 2020, descriveva l’epidemia già nel dicembre 2019, ciò significa che essa era in corso almeno da novembre. Michael Pillsbury, che è uno dei maggiori esperti di Cina al mondo e che mantiene relazioni con fonti cinesi, ha scritto che, tra dicembre e metà gennaio, altri sei medici cinesi furono arrestati e messi in prigione per aver parlato in Cina dell’epidemia. Pillsbury ci ha anche detto che a metà marzo i media di stato cinesi parlano di un “virus italiano” e provano a trasmettere la definizione nelle molte nazioni e sui molti media dove il governo cinese ha influenza. Ambasciate di Pechino chiedono che non si parli di un’origine in Cina dell’epidemia. La propaganda concertata è di rilevanti dimensioni. Ma il governo cinese non può nascondere la repulsiva e ben nota realtà dei mercati alimentari e delle abitudini alimentari cinesi. Disgusto si prova anche davanti a quei media, in America e in Europa, che per due mesi hanno parlato di “virus di Wuhan” e adesso si adeguano a ritirare la denuncia in quanto essa sarebbe “xenofobica” e “anticinese”.

 

Poiché siamo davanti a qualcosa di più delle teorie cospirative che occupano le menti, disinformate e adesso svuotate dalla quarantena forzata, di milioni di persone, sembra necessario da parte del governo USA (e di altri governi responsabili, se ci sono) un impegno di denuncia che vada al di là della convocazione dell’ambasciatore cinese, avvenuta a Washington a metà marzo. Il presidente cinese Xi, con il quale Trump ha contatti telefonici, dev’essere coinvolto per imporre un chiarimento. In assenza di risposte responsabili da parte dei vertici cinesi, le conseguenze non possono mancare e non potranno che implicare i recenti accordi commerciali tra USA e Cina. Un impegno di contrasto alla disinformazione di regime è necessario, perché essa ha conseguenze misurabili.

Claudio Taddei

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