USA 2020, il ruolo dei media e dei social media
Pubblichiamo l'intervento del professor Claudio Taddei, politologo, scrittore e collaboratore di diversi think thank, esperto di cose americane.
Negli USA, con alcune rilevanti eccezioni, i media più diffusi tendono a travisare la realtà politica e sociale del paese. Non siamo davanti a giornalisti, ma a ciarlatani e impostori, o attivisti di partito che celebrano l’ostilità collettiva verso Trump. Per la corruzione ideologica dei media, i primi responsabili sono le proprietà: Comcast, proprietaria della NBC; AT&T, proprietaria della CNN; Disney, che controlla la ABC e altre reti TV; Jeff Bezos, che è divenuto il padrone del Washington Post dopo aver salvato il giornale dalla bancarotta; il miliardario messicano Carlos Slim, che è il maggior azionista del New York Times; il miliardario di origine cinese Soon Shiong, che controlla il Los Angeles Times. Queste proprietà, ed altre, sono schierate in modo dichiarato con i Democratici e ne sono tra i finanziatori. Gli effetti sono misurabili. A New York e a Washington, le due città dove sono concentrati i maggiori media e quasi tutta la burocrazia federale, oppure a Los Angeles, dove il potere Democratico è totale, nel 2016 Trump ha ottenuto meno del 20% dei voti. Nelle elezioni del 2020 a poco servirà che egli abbia operato per il bene anche di coloro che non votano per lui, a differenza del modello seguito da Obama. Per esempio, nel 2016 il 92% dei neri ha votato per Hillary, ma Trump ha recato grandi vantaggi ai neri in quanto a occupazione, livello degli stipendi, riforma della giustizia criminale (e conseguenti scarcerazioni), “zone di opportunità” per l’impiego e il tempo libero in quartieri urbani di prevalente etnia nera.
Le elezioni per la presidenza del 2020 non sono una contesa tra Trump e Biden, che è un candidato finto, solo di facciata, scelto per coprire il potere Democratico. Sono una contesa tra Trump e i media. Come nei licei e nelle università si applica il lavaggio del cervello degli studenti ad opera di professori con la cattedra garantita, e in questo modo si mettono le basi dell’ideologia di sinistra, terzomondista e antiamericana, così nei media più diffusi si vuole decidere che cosa il pubblico deve pensare: l’agenda delle notizie, spesso costruite, è unidirezionale, e chi propone opinioni diverse viene combattuto, calunniato, talvolta messo a tacere. Per oltre due anni i media hanno imposto la frode della “collusione” russa di Trump; poi per sei mesi hanno portato avanti un falso impeachment; poi hanno usato la pandemia, circondando di menzogne l’operato di Trump e ignorando i crimini del governo cinese; infine hanno assecondato la teppa che operava in sommosse urbane, e lo hanno fatto e lo fanno in nome di false premesse: il “razzismo sistemico” della polizia, o dell’America, o il “privilegio dei bianchi”. I media non dicono che non c’è razzismo verso i neri in un paese che ha avuto un presidente, 10 senatori, 153 congressmen, 2 giudici della Corte Suprema, 224 giudici di tribunale, decine di generali, neri. In un paese dove 40 delle 100 città più grandi hanno sindaci neri. I media non dicono che non c’è “privilegio dei bianchi”, ma piuttosto dei neri, nell’accesso alle università, a molti posti lavoro, al welfare. Non c’è razzismo sistemico in una polizia che nel 2018 ha ucciso 10 neri nel corso di fermi di strada, ma ha avuto 81 agenti uccisi da criminali neri, su un totale di 142 perdite. Nessun altro paese ha combattuto una guerra civile per cancellare la schiavitù dei neri: una guerra con 750 mila morti (secondo le più recenti stime dello storico David Hacker), quasi tutti bianchi, quando il paese aveva una popolazione, nel 1860, di 31 milioni.
La capacità di impostura dell’attuale sinistra americana e dei suoi media è stupefacente. Durante le recenti sommosse i media americani, con poche eccezioni, non hanno denunciato i sindaci e i governi locali Democratici che consentivano violenze e soprusi. Per la CNN o per il New York Times o per la National Public Radio (l’unica radio pubblica in America), la difesa della proprietà non era più lecita, estremista era chi cercava di sottrarsi alla teppa, i crimini venivano ignorati, i cittadini non erano uguali davanti alla legge, la canaglia veniva rivestita da un manto di diritti. La parola magica era ed è “proteste”. L’inganno è meditato, fortunato, poco contrastato. I media pretendono che un episodio di brutalità della polizia a Minneapolis (dove, come nelle altre città coinvolte nelle sommosse, il governo locale e dunque la gestione della polizia sono Democratici da decenni) giustifichi le centinaia di poliziotti feriti, gli incendi, la fine della legalità in quartieri urbani. O che giustifichi la richiesta di togliere i fondi alla polizia. Però chi accorre nei quartieri neri delle grandi città per contenere il crimine sono i poliziotti, non gli studenti e i professori, non gli attivisti di BLM (Black Lives Matter). I media parlano di BLM senza dire che si tratta di un gruppo estremista, antisemita, antiamericano, razzista verso i bianchi, o senza dire che dal 2015 (secondo un’inchiesta del Washington Times) ha ricevuto 35 milioni di dollari da George Soros, o senza ricordare che nel loro manifesto si legge: “Che cosa vogliamo? Poliziotti ammazzati”. I media temono BLM, come temono gli estremisti di Antifa, o gli attivisti di Media Matters, che si raccolgono davanti alle case di noti giornalisti e li minacciano. Peraltro non solo i media, ma anche grandi società hanno gli stessi timori e subiscono gli stessi ricatti e minacce; e in vario modo si adeguano.
Si può persino affermare che oggi negli USA non vi sia libertà dei media, con l’eccezione di radio e TV private, di podcast, di presenze sui social, e di una parte (solo una parte) della rete TV Fox News. Altrove la regola è la propaganda. Non siamo davanti alla “libertà di espressione” sancita dalla Costituzione, bensì a quella che si può definire una propaganda di regime. Vi partecipano, in varia misura, le maggiori agenzie di stampa (Associated Press, Reuters, France Press, ANSA), che qualcuno cita, anche in Italia, come se si trattasse di notizie oggettive. I media che diffondono notizie false sono “i nemici del popolo”, dice Trump, attirandosi le critiche anche di quei deboli senatori Repubblicani la cui serenità equanime è fuori dal tempo. La parzialità dei media conduce al pensiero di gruppo. Ciò ha reso possibile la cospirazione volta a destituire Trump, o rende possibile che il ruolo avuto, nel complotto, da Obama e dai suoi fiduciari al DoJ (Giustizia), all’FBI, alla CIA, non sia entrato nella consapevolezza collettiva. Il ministro della Giustizia Barr dichiara che Obama non verrà indagato. Osservatori credibili ritengono, invece, che Obama dovrebbe testimoniare in Congresso sotto giuramento. Il Dipartimento Giustizia, che è stato ed è ancora un covo di attivisti Democratici, molti dei quali nominati da Obama, appare incapace di indagare se stesso. Tom Fitton, il presidente della benemerita Judicial Watch, afferma che Trump dovrebbe nominare un procuratore speciale per indagare. Mi sembra tardi per farlo. In ogni caso i media non denunciano i fallimenti della Giustizia, e oggi si fanno portavoce di coloro che infangano l’operato della polizia, la storia americana, la resistenza dei cittadini onesti.
Gli agenti di polizia non sono “i cattivi”; quasi sempre sono “i buoni”. Però in città a governo Democratico i politici locali tagliano i fondi alla polizia, su richiesta della canaglia che circola nelle strade. Quelle città, dove già la convivenza era difficile, diventano invivibili. A New York il sindaco De Blasio ha eliminato un miliardo di dollari dal bilancio della polizia: la città dove negli anni Novanta il sindaco Giuliani aveva riportato l’ordine pubblico, poi mantenuto dal sindaco Bloomberg, diventa di nuovo un territorio di crimini e illegalità. Ma gli elettori che a New York votano De Blasio, o Nadler, o Ocasio Cortez, applaudono, e con il loro sindaco dipingono a gialle lettere cubitali Black Lives Matter sui muri e sulle vetrine eleganti della Fifth Avenue. Non vi sarà giustizia e non vi sarà ordine, e direi non vi sarà speranza, né in America né altrove, fino a quando l’ideologia terzomondista, immigrazionista, avversa ai valori, alle tradizioni, agli interessi e ai sentimenti nazionali, non verrà fermata, e ricacciata nella tana a cui appartiene, dalla rivolta degli uomini e delle donne che decidano di difendere il proprio paese.
Non vi sarà unità nel paese chiamato Stati Uniti fino a quando la corruzione ideologica dei media avrà seguito e fino a quando i Democratici avranno il 50% del voto e controlleranno leve decisive del potere (istruzione, cultura di massa, grandi banche, sindacati del pubblico impiego e degli avvocati) e il governo di Stati importanti. O fino a quando essi potranno usare 160 miliardi dollari l’anno per il welfare che garantisce la permanenza nel paese degli immigrati illegali, mentre i maggiori programmi di sicurezza sociale per gli anziani (Medicare, le pensioni) sono ufficialmente minacciati nel medio periodo dalla crescita del debito. Ann Coulter è solita dire che “l’immigrazione non è un problema tra gli altri; è il problema che farà perdere il controllo di ogni altro, e per sempre”. La democrazia americana e l’esperimento di libertà che è sempre stata l’America sono resi fragili dall’eccessivo garantismo. Che è anche un garantismo verso ideologie sediziose.
In materia di comunicazione, l’abbietta ipocrisia della sinistra americana e la difficoltà di opporsi al pensiero di gruppo risaltano dai social media. Di recente (fine maggio 2020) una polemica tra Trump e Twitter ha occupato i titoli, dopo che la direzione di Twitter aveva minacciato di chiudere l’account di Trump – il quale in realtà, con i suoi frequenti tweets, è uno degli utenti più seguiti. Ora, Twitter è una società privata e multimiliardaria, con una piattaforma di centinaia di milioni di utenti. Come Google o Microsoft o Facebook, in vista delle elezioni (come è già accaduto in passato) Twitter intende orientare le opinioni in senso avverso a Trump e ai conservatori, e a questo scopo esercita una censura sui messaggi. Una ricerca del Washington Examiner ha trovato che il 99% delle donazioni da parte dello staff di Twitter va ai Democratici, come avvenne nel 2016 e 2018 per lo staff di Google. Fin dalla fondazione, Twitter e gli altri colossi di Internet beneficiano di un privilegio: la legge del 1996 (Communications Decency Act) li esonera da responsabilità per i contenuti pubblicati dai loro utenti, e in questo modo li mette al riparo da querele per diffamazione. Il notevole privilegio, che ha procurato ai social media libertà di azione, fu concesso dal Congresso perché, all’inizio dell’era Internet, i social erano considerati siti neutrali dove gli utenti potevano comunicare tra di loro, ad esclusione di contenuti criminali o pornografici. Doveva trattarsi di piattaforme neutre, dove i contenuti politici fossero liberi.
Da almeno un decennio, e sempre più negli ultimi anni, e sempre più negli ultimi mesi, i social hanno modificato il loro ruolo. Non sono più soltanto piattaforme per comunicare. Note voci di conservatori sono censurate o escluse da Twitter. YouTube cancella rapidamente (nel giro di poche ore) video di commentatori che sostengono Trump. Google e Microsoft, e le società che ne dipendono (anche Wikipedia), orientano le ricerche, discreditano le scelte di Trump, modificano i dati storici. Il fondatore e CEO di Twitter mette limiti alla libertà di espressione di sostenitori di Trump, ma non censura infami parole riguardo alla moglie di Trump, Melania, o al figlio Barron. La commissione di controllo di Facebook e la direzione di Google sono gestite da persone avverse a Trump in modo viscerale. Wikipedia riscrive gli eventi storici avendo come guida le turpi teorie di Black Lives Matter. I social media sono fuori controllo e non lavorano nell’interesse della nazione.
A fine maggio un episodio richiama l’attenzione. In un tweet Trump denuncia il voto per posta come fonte di frodi. La direzione del social mette un contrassegno sul suo tweet dichiarando che il contenuto è da verificare. Poco dopo arriva la verifica, che consiste in fraudolenti rapporti di CNN e del Washington Post, cioè di media avversi a Trump. L’operazione è scoperta e falsificante. In quel caso, come in molti altri, Twitter si muta, da una piattaforma neutrale e aperta, in un editore che controlla i contenuti. Dunque le protezioni conferite dalla legge del 1996 non sono più giustificate, e sarebbe dovere del Congresso rivedere i termini della legge. Ma nel frattempo i social sono divenuti società potenti e influenti. Di fatto essi hanno “il potere di censurare, occultare, modificare qualsiasi comunicazione su Internet” (come afferma Barr in un’intervista).
Il 29 maggio Trump prova a reagire con un ordine esecutivo che nelle intenzioni priva delle protezioni legali i social media che “censurano o modificano a scopi politici i contenuti”. Poiché una piattaforma che non sia neutrale dev’essere trattata come un editore, Trump chiede alla Federal Communications Commission di revocare le immunità e i privilegi dei social. Ciò non significa che Trump “mette nel mirino” Twitter o Google, come scrivono i media americani (e ripetono quelli italiani). Al contrario, come voci credibili hanno affermato, l’ordine esecutivo di Trump riafferma Internet come sede aperta di contributi leciti, chiedendo la revoca dell’immunità in regime di monopolio. L’intervento di Trump porterà la questione in tribunale e, in assenza di modifiche legislative, l’esito è incerto. Vediamo di continuo come troppi giudici si adeguino a ideologie e obiettivi politici di sinistra, in materia di immigrazione e altro, e dunque siano parte della cospirazione anti-Trump e antiamericana. Nonostante gli oltre 150 giudici, di vario livello, nominati da Trump e confermati dai Repubblicani in Senato, il sistema giudiziario, fino al giudice-capo della Corte Suprema (Roberts), rimane infiltrato da creature dello “Stato profondo”, da ideologi di basso rango e da attivisti Democratici.
In giugno, quando Google blocca per giorni gli sponsor del sito conservatore The Federalist, il ministro Barr chiede modifiche a quella parte della legge del 1996 (Sezione 230) che non solo fornisce immunità legale ai social media, ma dà ad essi il potere di controllare le attività e il reddito dei siti sui quali viaggia l’informazione alternativa. Di nuovo, affinché la richiesta di Barr abbia effetto, il Congresso dovrebbe deliberare. Il che non può accadere in una Camera che l’impresentabile e davvero indegno leader Democratico, la Pelosi, tiene quasi sempre assente da Washington e operativa solo per elaborare progetti di impeach Trump o sfrenate leggi di spesa assistenziale, distruttive del bilancio. E non può accadere in un Senato dove i Repubblicani, con poche eccezioni, sembrano non rendersi conto che il paese è perduto se essi non agiscono e se non si presentano in modo convincente come l’unica possibile opzione politica. Alcuni di loro perdono tempo con stolte proposte come quella di abolire il Columbus Day: cioè assecondano i ricatti e le imposture della sinistra, anziché aggredire ricatti e imposture. Quei senatori non comprendono la dimensione del pericolo. Nelle elezioni di midterm del 2018 la sola Google, secondo ricerche condotte dallo studioso (non di parte, e anzi liberal) Robert Epstein, riuscì a orientare, con le risposte alle domande fatte dagli utenti, milioni di voti. La previsione di Epstein è che nel 2020 Google, che risponde al 92% delle ricerche fatte su Internet, possa influenzare fino a 50 milioni di voti: lo farà in direzione avversa a Trump e ai conservatori. I Repubblicani non hanno modificato il monopolio di Google o di Facebook o di Twitter, né quello di Microsoft o di Apple. Essi andranno alle elezioni di novembre rimanendo soggetti alle censure e agli obiettivi di quelle società. In modo altrettanto inadeguato i Repubblicani non hanno finora bloccato, in Stati dove l’esito elettorale è incerto, le pratiche di voto che conducono a frodi certe. Le conseguenze possono essere nefaste.
Riguardo all’intervento esecutivo di Trump sui social media e alle buone intenzioni di Barr, mi sembra che essi arrivino – come i passi avanti su altri temi importanti – troppo tardi. Si afferma che solo la concorrenza, che ancora non c’è, potrebbe intaccare il potere delle grandi società di Internet. Di quanto il ritardo nell’agire favorisca i nemici, abbiamo avuto una prova drammatica nella risposta del governo Trump alle sommosse, ai vandalismi, alle distruzioni di proprietà pubblica e privata, alla deturpazione di simboli e monumenti nazionali in molte città americane. Per settimane, a partire dalla fine di maggio, mentre i media distorcevano le motivazioni reali e mentre le violenze di Antifa e di Black Lives Matter colpivano cittadini indifesi, statue di fondatori della nazione, o anche solo simboli di cui l’America onesta era orgogliosa (come la Fontana del Cervo a Portland), venivano attaccati. La peste si diffondeva subito in Europa, dove persino la Sirenetta di Copenhagen veniva deturpata. Trump, messo in condizione di non poter usare i militari dalle sconcertanti dichiarazioni di non-interventismo dei vertici del Pentagono (il Capo degli Stati Maggiori Milley, il ministro della Difesa Esper), chiedeva ai governatori Democratici degli Stati dove le sommosse avevano luogo di schierare la National Guard, ma ciò avveniva solo, con grave ritardo, in Minnesota, mentre alla polizia si impediva di intervenire. Soltanto il 25 giugno Trump otteneva l’impiego dell’FBI per difendere l’ordine pubblico e asseriva le penalità che la legge impone ai trasgressori, mentre Barr iniziava alcune centinaia di procedimenti penali verso i facinorosi. Finalmente entrava in scena un governo deciso a difendere la nazione americana (e non occupato a difendere la stabilità di qualche paese in Medio Oriente o in Africa).
Infine la legge e l’ordine, e non la condiscendenza verso le false accuse di “razzismo sistemico” e la conseguente incapacità di sottrarsi al ricatto ideologico, sono tornati ad essere di primaria importanza. Come in altre situazioni cruciali della politica USA, vi è stato un ritardo. Ancor più grande è dunque l’approvazione per l’eccellente discorso di Trump a Mount Rushmore, in occasione del 4 luglio, dove Trump ha denunciato la diffamazione della storia americana compiuta dalla sinistra e dai suoi media come “una rete di menzogne”, e dove ha ribadito, con convinzione e leadership, i valori della tradizione e della cultura americane come ancoraggio contro il decadimento della società. Ancora una volta i media hanno travisato e distorto le sue parole: per esempio le reti TV CNN e NBC, con isterica disonestà, hanno parlato di un messaggio di “razzismo”.
Quando Obama mise in azione l’FBI contro Fox News, che allora era una rete TV vicina ai conservatori, o quando Obama incaricò le Entrate di agire contro il Tea Party, che si opponeva all’invasione delle libertà costituzionali, i media rimasero in silenzio. Oggi i media affermano che Trump è un pericolo per la libertà di stampa (in un paese che quella libertà sta perdendo a causa del controllo ideologico della sinistra) perché egli dice che i media, se propagano notizie false, sono “nemici del popolo”. Davanti alla quantità di disinformazione che i maggiori media americani diffondono, con pronta copia in Italia e in Europa, l’unica libertà di espressione a rischio è quella dei conservatori, dei cittadini onesti e in qualche caso di Trump stesso. La mancanza di verità distrugge il bene e favorisce il successo del male. Il monopolio dell’ideologia è ciò che ha distinto i peggiori regimi della storia ed è ciò che oggi è la pratica del partito Democratico, dei suoi strumenti consolidati come le università e i giudici asserviti, e dei suoi nuovi strumenti operativi, come Black Lives Matter e Antifa. Anche per questo motivo le elezioni del 2020 possono diventare per gli USA, e di conseguenza per l’Occidente, il punto di non ritorno. Se la verità e un grado accettabile di giustizia falliscono negli Usa, non vi sarà modo di averle nemmeno in Italia e altrove in Europa.