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USA 2020, la questione delle frodi nel voto

25 Agosto, 2020

Pubblichiamo l’intervento di Claudio Taddei, politologo, scrittore e collaboratore di diversi think thank, esperto di cose americane.

Nelle elezioni USA del prossimo 3 novembre la presenza aggressiva nelle strade dei gruppi “bolscevichi”, come li definisce il ministro della Giustizia Barr, non sarà l’unico fattore eversivo. Vi saranno diffuse frodi elettorali, costruite a vantaggio dei Democratici. In America di frodi elettorali si parla, soprattutto riguardo ai quartieri neri di alcune grandi città, dalle elezioni del 2012 in cui Obama fu confermato presidente. Nelle midterm per il Congresso del 2018 vi furono manipolazioni del voto in California, che contribuirono all’incremento di 6-7 seggi in favore dei Democratici, e in altri Stati. Nel 2020 il potere Democratico sta mettendo in atto lo schema di corrompere il processo elettorale, arrivare al caos gestito presso l’opinione pubblica dai media, contestare con cause legali un eventuale successo di Trump e, con i giudici e i media, provocarne l’uscita di scena. Il caos si allargherà a molte contese elettorali per il Senato e per la Camera, con esiti disgreganti.

Benché la piccola corruzione non sia tra i mali americani e sia assente nelle tradizioni della provincia americana, frodi capitaliste, oppure garantiste e assistenzialiste, non mancano negli USA. Per esempio, secondo dati ufficiali vi sono oltre 120 miliardi di dollari l’anno di sprechi e frodi nel programma Medicaid (la sanità per i poveri). Con le frodi elettorali si apre un nuovo e minaccioso capitolo. Non da sempre, ma da due decenni, la corruzione del processo elettorale legata alla concessione del voto agli immigrati illegali, che è uno degli elementi della frode, si è diffusa fino a minacciare il futuro della nazione. Nel 2020 l’impresentabile speaker dei Democratici alla Camera, la Pelosi, cerca di inserire nelle leggi di spesa, votate come soccorso nel dopo-pandemia, la permanenza nel paese per tutti gli immigrati illegali e la concessione ad essi del voto. La parte sana e responsabile della nazione deve comprendere che cosa significherebbe, in materia di partecipazione al voto, confermare una maggioranza Democratica alla Camera. Il potere Democratico pensa di poter fare tutto. Con la complicità dei media, ha tenuto nascosto il maggior scandalo politico della storia USA: il colpo di stato contro Trump iniziato nella Casa Bianca di Obama il 5 gennaio 2017 e preparato da illegali attività precedenti – scandalo riguardo al quale l’inaccettabile lentezza dell’indagine Durham è divenuta un ulteriore strumento di copertura. Poiché non vi è distinzione tra quanto affermano i leader Democratici e quanto propagano i media più diffusi, le storture nel giudizio pubblico sono di grave, quasi incredibile portata. Dunque non vi è denuncia del progetto Democratico di rendere la pandemia un pretesto per una frode di incontrollabili proporzioni nel sistema di voto e nel diritto al voto. Il virus cinese di Wuhan è divenuto l’occasione per sovvertire il sistema elettorale e, con la paura del contagio, indurre le persone a non recarsi nella sede del voto. Il voto per posta, che nell’agosto 2020 è già in atto in America, è uno strumento per aprire la strada a frodi elettorali e a un grado di confusione che renda impossibile un risultato chiaro e accettato.

Il potere Democratico non perde mai le elezioni, anche quando non le vince, perché in quel caso ne sovverte il risultato per mezzo di strumenti permanenti: la burocrazia di stato, i giudici nominati per fare politica, il controllo dell’opinione pubblica tramite i media. Il condizionamento delle opinioni ha inizio nelle scuole superiori e nelle università. Nel 2020 lo strumento aggiunto è il controllo delle strade per mezzo della teppa, in parte ideologizzata: il potere Democratico accetta e dunque incoraggia la violenza insurrezionale nelle città che esso controlla, cioè quasi tutte le grandi città americane. All’indomani delle elezioni del 3 novembre, anche se Trump è in vantaggio, i Democratici diranno che egli ha perduto. Tutto è intenzionale e programmato. La squadra di Biden, completata dalla ripugnante scelta di un vicepresidente (Kamala Harris) che è tra i più aggressivi ed estremisti politici Democratici (e che, come procuratore distrettuale di San Francisco e poi procuratore generale della California, mise fuori di prigione centinaia di criminali, in parte immigrati illegali, e centinaia di spacciatori), intende contestare in tribunale un eventuale successo di Trump, e a questo specifico scopo ha già arruolato 600 avvocati esperti di querele (litigators). Quanto è accaduto in Florida nel 2000 verrà replicato in dieci Stati.  Si prepara un nuovo colpo di stato. Con la stessa impudenza con cui il governo della California mantiene chiusa nel dopo-pandemia una parte dello Stato per ostacolare la ripresa economica nazionale, o con cui i sindaci di Chicago, di New York, di Seattle e di altre città non si oppongono alle sommosse, anzi le favoriscono, con la stessa impunita impudenza i Democratici non accetteranno un successo di Trump. Lo strumento per prevenire quel successo è la frode nel voto.

Secondo la Costituzione e nei precedenti storici vi è un giorno designato per votare, e ogni Stato fissa le sedi del voto. C’è la possibilità di chiedere un voto per posta, per motivati impedimenti e fornendo la propria identità (il cosiddetto absentee ballot, di cui usufruiscono diplomatici e militari all’estero, o persone malate). Questo sistema ha sempre funzionato. I Democratici intendono distorcerlo, gonfiarlo di voti non validi, generare confusione, accusare Trump se prova a opporsi, e dichiarare di aver vinto negli Stati contestati. Negli USA i singoli Stati hanno proprie regole elettorali. Da tre decenni i governi Democratici di alcuni Stati applicano regole che non richiedono l’identificazione fotografica di chi vota, e sempre più consentono la raccolta del voto casa per casa, il voto per posta senza giustificati motivi e l’uso delle cassette (drop box) sui marciapiede, in cui lasciare la scheda elettorale: pratiche che rendono facile la frode, soprattutto in Stati dove il potere è monolitico. Nel 2020 la minaccia più dichiarata è l’uso massiccio del voto per posta. Un inganno è in corso. Il voto generalizzato per posta non è absentee ballot. É uno strumento per impedire che vi sia l’identificazione di chi vota e dunque la verifica di un reale diritto al voto.

A inizio agosto 2020 sono già partite per posta 43 milioni di schede elettorali. Si ritiene che ne verranno spedite fino a 80 milioni. Né gli Stati né il Postal Service sono preparati a gestire 80 milioni di voti per posta. Non lo hanno mai fatto. Nelle primarie di quest’anno in New Jersey, in Wisconsin e a New York, dove si è votato per posta, decine di migliaia di schede risultano trattate in modo scorretto, con conseguenti ritardi e contestazioni (e frodi Democratiche accertate in New Jersey). E si trattava soltanto del voto limitato di primarie. Come con altre agenzie in difficoltà, da circa un anno il governo Trump sta provando a riformare il Postal Service, noto per ritardi nel servizio e finanze dissestate. Quando Trump ha avvertito che il voto per posta consente distorsioni e ha invitato a presentarsi ai seggi e votare di persona, dai Democratici e dai loro media sono arrivate accuse inaudite di voler sabotare il Postal Service per impedire il voto: accuse rilanciate alla recente Convention Democratica da un triste demagogo di nome Obama. Come in altri casi, non si tratta soltanto di inquadrare la realtà a proprio beneficio. Si tratta di costruire un’accusa completamente falsa per mobilitare i propri elettori. I Democratici si preparano a dichiararsi vincitori comunque vadano le elezioni. Il nuovo complotto è pronto.

Osservatori credibili hanno indicato che il voto per posta rende possibile ogni tipo di  frode. Non vi è modo di controllare se la persona che ha ricevuto la scheda abbia diritto al voto, e ciò è una seria distorsione, poiché nei registri elettorali vi sono i nomi di persone che hanno cambiato residenza, a volte cambiato Stato, nonché di persone decedute o private dei diritti; e vi sono i nomi di immigrati illegali, se essi hanno ottenuto una patente di guida: in questo modo in California, a New York e in altri Stati, milioni di schede vengono inviate a immigrati illegali. Inoltre gli incaricati di raccogliere il voto sono spesso attivisti politici e possono esercitare pressioni, anche comprare il voto, anche modificare le schede. Le drop box, che sono aperte, possono essere manipolate. E ancora: negli Stati Democratici i voti per posta possono essere contati fino a una settimana dopo le elezioni (in California due settimane), il che è un modo per impedire un esito chiaro all’indomani del voto. Se per esempio negli Stati contesi la mattina del 4 novembre Trump è vincente, i Democratici chiederanno settimane per contare tutti i voti, o per ricontarli. Il caos coinvolgerà elezioni di esito non certo per Senato e Camera.

Il database di Heritage Foundation riporta centinaia di condanne per frode elettorale dal 2012 in poi. Di tali condanne, oltre il 95% riguarda città e contee governate dai Democratici. I casi sono di varia natura, perché le regole sono diverse nel grande paese: registri di voto manomessi, doppi voti, schede distrutte e non contate, voto concesso a illegali e non residenti, schede inviate a persone che hanno cambiato residenza e usate da chi le raccoglie casa per casa. Negli Stati Democratici non vi è urgenza di correggere i registri elettorali. Un rapporto ufficiale della Contea di Sacramento, in California, afferma che le schede vengono inviate a 21 mila persone decedute. E la raccolta del voto (molto frequente in California, in Nevada, in Colorado e altrove) è un invito a intimidazioni, a promesse di favori e a frodi. La difficoltà di una correzione viene dal fatto che, oltre a quanto stabilito dalla legge (tra cui la data delle elezioni) e che solo il Congresso può modificare, le modalità del voto sono stabilite dagli Stati. Gli Stati controllati dai Democratici possono applicare regole che il presidente non approva. Anche in Stati dove la prevalenza politica non è certa, come il Michigan o il Wisconsin o la Pennsylvania o il Nevada, sta accadendo che il voto per posta sia la scelta del governatore Democratico, con il sostegno del procuratore dello Stato (Attorney General) e del consiglio comunale (City Council) nella città capitale, anch’essi Democratici. Il voto per posta è applicato senza possibilità di contestarlo nello stato di Washington e in Oregon; da alcuni anni in Colorado; e da due decenni in California, dove per posta sono già partite 20 milioni di schede. Le possibilità di distorsione sono paurose in un’America dove si vince o si perde per qualche migliaio di voti: nel 2016 Trump vinse in Michigan per 12 mila voti, in Wisconsin per 23 mila, in Pennsylvania per 43 mila, o perse in Nevada per 26 mila voti.

A quanto detto si aggiunge l’attivismo di giudici di parte. A fine aprile in Kansas una Corte d’appello ha giudicato non ammissibile la richiesta della cittadinanza per votare, andando contro lo spirito della Costituzione e il senso comune. La stessa cosa è accaduta negli ultimi anni a Boston, a Dallas, ad Atlanta, a Los Angeles. Molte cause legali iniziate per denunciare risultati elettorali alterati sono bloccate in tribunale. La formula mistificata a cui si attengono troppi giudici è che l’identificazione di chi vota è “discriminante” o “razzista”, e implica “soppressione del voto”. Questa vergognosa e malvagia teoria è abbracciata dai media più diffusi ed è riversata nelle menti del pubblico. Eppure in tutti gli Stati si deve esibire un documento di identità (che negli USA è quasi gratuito) per salire su un aereo, o per affittare una macchina. In alcuni Stati i giovani devono farlo per comprare tabacco o liquori. L’esclusione dell’accertamento di identità per votare diverrebbe applicabile su scala nazionale in un progetto di legge presentato alla Camera dalla Pelosi e di recente sostenuto da Obama. Il quale Obama, anziché essere portato in Congresso a testimoniare per il ruolo da lui svolto nel complotto contro Trump, pronuncia discorsi elettorali disonesti e ipocriti, con un attivismo insolito per un ex presidente. Il progetto della Pelosi prevede che negli Stati Repubblicani, dove viene richiesto un documento di identità per votare, si debba accettare, in alternativa al documento, un’autocertificazione inviata per posta. Attualmente la pressione è enorme affinché queste e altre regole, che rendono possibili le frodi, siano applicate con il pretesto del “distanziamento sociale”, usando gli allarmi per la pandemia (peraltro contenuta) del virus di Wuhan, benché un seggio elettorale non sia più contagioso di un supermercato o di una sommossa di strada.

Un argomento ripetuto dai media asserviti al potere Democratico è che “non ci sono prove” delle frodi. In realtà vi sono tonnellate di prove, e da anni. Ne riporto alcune relative alle ultime settimane. In Texas il “Segretario di Stato” riferisce che nei registri di voto vi sono 95 mila nomi di immigrati illegali. A Filadelfia un commissario di seggio elettorale ammette di aver accettato schede elettorali compilate da attivisti del partito Democratico. In Virginia il governatore Democratico cancella l’obbligo di identificazione per chi vota e definisce ciò “la garanzia” per il successo nelle prossime elezioni. Altre prove riguardano le frodi in quartieri abitati per lo più da neri, a New York, a St. Louis, a Chicago sud, a Filadelfia nord, con testimonianze di pullman che spostano elettori da un seggio all’altro. La California è il manifesto di elezioni alterate e di ciò che gli USA diverrebbero in caso di successo dei Democratici il 3 novembre. La California, lo Stato più popoloso, assegna ben un quinto dei voti per la presidenza (55 su 270) e ben 53 seggi per la Camera; dunque ha un peso esorbitante. Il governatore Newsom ha inondato il sistema postale facendo inviare 20 milioni di schede. Tra i destinatari vi sono immigrati illegali (di certo più di un milione) ed ex detenuti, rilasciati dalle prigioni con la motivazione di metterli al riparo dalla pandemia. Gli immigrati recenti, anche legali, sono contattati da attivisti che forniscono istruzioni per il voto postale. Tre anni fa la benemerita fondazione Judicial Watch, diretta da Tom Fitton, iniziò verso lo Stato di California una causa legale, a seguito della quale alcune contee hanno cancellato nomi dai registri di voto: soltanto nella Los Angeles County, che è la contea più popolosa degli USA con 10 milioni di abitanti, quasi un milione di nomi irregolari vengono cancellati a seguito della denuncia di Judicial Watch.

La falsa tesi che i controlli di identità significhino “soppressione del voto” tra le minoranze etniche (che sono sempre meno minoranze) non riguarda solo la California e altri Stati dove il potere Democratico è cementato, bensì coinvolge Stati dove l’esito elettorale è incerto, e che dunque sono decisivi. Il governatore Democratico in Pennsylvania ha allentato le regole sull’identificazione di chi vota (per esempio, la patente è accettata come ID, o un voto “provvisorio” è concesso a chi non ha ID) e sulla raccolta dei voti casa per casa. In Wisconsin il governatore Democratico accetta la diffusione del voto per posta e ne allunga i tempi. In North Carolina il governatore Democratico protegge l’iscrizione sui registri di voto degli immigrati clandestini. Ciò avviene mentre una denuncia di Judicial Watch documenta che tra Pennsylvania e North Carolina vi sono sui registri quasi due milioni di nomi illegali, anche di persone che hanno perso i diritti civili per reati commessi. All’indomani del 3 novembre vi saranno Stati senza un risultato credibile a causa dei voti illeciti, altri Stati con risultato a favore di Trump contestato perché devono arrivare altre schede per posta. I Democratici pensano di poter beneficiare del caos, con l’assistenza dei media. In Stati contesi, oltre al governatore la sinistra controlla la procura di Stato (anche definita Corte Suprema di quello Stato): ciò avviene nei decisivi Michigan, Wisconsin, Pennsylvania e North Carolina. Vi sono altri Stati, fino al 2018 non considerati contesi, come il Minnesota, ma dove nel 2020 il potere Democratico, fondato su immigrati e rifugiati, potrebbe essere intaccato. In tutti questi Stati i Democratici affermeranno di dover contare fino all’ultimo voto postale, e se ciò non basterà chiederanno l’intervento di un tribunale, fino alla Corte Suprema federale (dove il Chief Justice John Roberts è molto sensibile alla propria immagine presso i media e di conseguenza delibera spesso in modo avverso a Trump e ai conservatori). Il processo elettorale rischia di sfaldarsi. Del resto il partito Democratico ha come obiettivo di sovvertire il sistema elettorale basato sulla rappresentanza conferita a tutti gli Stati. Come per il sostegno alle sommosse e alle violenze di strada, anche per gli attacchi all’integrità delle elezioni i Democratici, come afferma il ministro Barr, “giocano con il fuoco”.

L’esito che i Democratici cercano per la presidenza è quello di un’elezione contestata, in cui con i giudici di parte e con i media forzare l’uscita di scena di Trump. La tattica per giungere al risultato è codificata nelle teorie del modello americano di marxismo: imporre un carico eccessivo sul sistema elettorale con il voto postale e quantità di schede non contate, poi tra le contestazioni e annunciando cause legali prendere il controllo della strada (le prove in molte città sono già avvenute) e chiedere che sia il Congresso a decidere chi ha vinto. Ora, la Costituzione non definisce che cosa fare nel caso non vengano raggiunti, a seguito dell’esito contestato in qualche Stato, i 270 voti necessari alla nomina del presidente, ma alcuni precedenti storici assegnano la nomina, in quel caso, alla Camera, dove fino al 3 gennaio 2021 i Democratici hanno la maggioranza. Però attenzione: nell’eventuale votazione della Camera per il presidente, che auspichiamo non avvenga, ogni singolo Stato ha un voto. E vi sono 26 Stati Repubblicani su 50.

La responsabilità del dissesto che si sta portando sul sistema elettorale non è bipartisan. Vi è un partito che non vuole la sicurezza del voto, l’identificazione di chi vota, la correzione dei registri, e che definisce “razzista” chi chiede tali cose; ed è il partito Democratico. Ma i Repubblicani, soprattutto in Senato, hanno responsabilità: assenti, incapaci di allinearsi, con qualche eccezione incapaci di attaccare, e in qualche caso distorti dall’ostilità verso Trump. Ciò che molti politici Repubblicani stanno facendo è quello che in America chiamano “fischiettare passando accanto al cimitero”, cioè sottovalutare la morte. Se non prevengono le frodi, se non limitano il voto per posta e denunciano i soprusi della raccolta dei voti, i Repubblicani perderanno la maggioranza in Senato e non avranno quella alla Camera. Se essi non comprendono di essere sull’orlo di un disastro, come lo è la nazione; se non oppongono un fronte unito allo sfrontato progetto Democratico di usare la pandemia per corrompere il sistema elettorale; se invece di servire gli interessi del globalismo immigrazionista, come alcuni senatori del GOP fanno, i Repubblicani non trovano il modo di difendere l’integrità delle elezioni, per loro e per la nazione il 3 novembre sarà una data nefasta.

Noto che anche il DoJ (Department of Justice) è assente: non vedo iniziative per fermare le frodi e il voto postale. Come per l’assenza di sanzioni riguardo al complotto che cercò di destituire Trump, così davanti alla prospettiva di frodi elettorali e del conseguente caos il ministro Barr è condizionato da centinaia di funzionari e procuratori del DoJ vincolati all’ideologia liberal e alla giustizia faziosa, dunque alla non-giustizia, degli anni di Obama e ancora prevalente. In un’intervista in giugno con Maria Bartiromo, Barr afferma: “Il voto per posta apre la porta a molteplici frodi”. Ma nessuna misura per impedirlo viene adottata. I generosi tweet di Trump non basteranno. L’occupazione del DoJ da parte del partito Democratico è protetta da una delle lobby più attive di Washington, quella dei trial lawyers, gli avvocati di tribunale. Si tratta degli avvocati, talvolta d’ufficio, che più beneficiano del proliferare di cause legali in America. Alla radio si fanno pubblicità invitando a fare ricorso per varie tipologie di contenzioso. La lobby è tra i finanziatori del partito Democratico e, insieme ai funzionari del DoJ, è tra le catene di ancoraggio Democratico al potere più difficili da aprire. La burocrazia permanente, cioè non legata a esiti elettorali, serve il partito Democratico e ne riceve compensi (un altro esempio è il sindacato degli insegnanti, che si oppone alla scelta della scuola, recando danno alle classi meno abbienti).

Arginare le frodi elettorali è di cruciale importanza perché non solo la conferma di Trump alla presidenza, ma una maggioranza dei Repubblicani in Congresso, per quanto alcuni di essi siano detestabili, sono una necessità assoluta. Se l’integrità della nazione viene compromessa dall’esito elettorale, non vi sarà modo di tornare indietro. Per quanto riguarda la presidenza, unica soluzione è una vittoria di Trump in misura ampia, così da mettere al riparo da contestazioni, nei 6-7 Stati incerti e decisivi. Gli elettori di Trump, che sono il nemico ultimo del potere Democratico, credono nel loro paese e comprendono che una battaglia mortale per distruggerlo è in corso. Molto meno lo comprende quella parte del partito Repubblicano che non sostenne del tutto Reagan, che si oppose al Tea Party e che oggi è avversa a Trump. Lo spirito di indipendenza e la fedeltà degli elettori conservatori dovranno fare un miracolo il 3 novembre. I media più diffusi sono la macchina di propaganda del partito Democratico, e ciò porterà al caos nel dopo elezioni. I 600 avvocati arruolati dalla squadra di Biden per contestare esiti favorevoli a Trump, e per confondere le controversie su accuse di frodi, saranno i promotori del caos. Noti giornalisti al servizio dei Democratici, come Chris Wallace (che non è il peggiore della specie), e a cui Trump concede interviste, gli chiedono se accetterà un risultato elettorale sfavorevole. Si tratta di una provocazione, tanto più indebita dal momento che i Democratici non hanno ancora accettato il risultato delle elezioni del 2016. Media di forsennata falsità affermano, prontamente riprodotti in Italia, che Trump parla del pericolo di frodi elettorali perché vuole cambiare la data delle elezioni: cosa che Trump non può né vuole fare.

All’influenza nefasta dei media si aggiunge quella battente e isterica dei maggiori social media. Un dirigente al vertice di Google dice alla CNN: “Useremo ogni mezzo a nostra disposizione affinché Trump non sia rieletto”. I mezzi a loro disposizione sono efficaci. Lo studioso Robert Epstein, che ha condotto ricerche sui messaggi e sull’influenza dei social nelle midterm del 2018, afferma: “La sola Google è in grado di spostare il 10% del voto in senso avverso a Trump e ai conservatori, senza che il pubblico si accorga di essere condizionato e senza lasciare una traccia cartacea”. L’arroganza esibita dai magnati di Internet durante la recente (fine luglio) audizione in Congresso è il volto insolente del loro potere in regime di monopolio.

Pur in una storia nazionale segnata da contese, non vi è mai stata negli USA una realtà interna così minacciosa e conflittuale. Tutto è divenuto più estremo negli ultimi sei mesi, in vista delle elezioni. In una realtà sociale di sommosse urbane e di false ideologie, la faziosità di media e social media, e il corrotto pregiudizio antiamericano che arriva dal mondo dello spettacolo, dello sport e delle università, portano il paese a un punto di crisi dal quale può non esserci ritorno. La pandemia, con le paure e le limitazioni ad essa legate, ha contribuito. Il vittimismo senza fondamento, consentito ai neri per richiederne il voto, ha contribuito. Una parte significativa della libertà di espressione del paese, e si direbbe della sua libertà di pensiero, è andata perduta. L’attacco è massiccio, studiato. Al di fuori delle radio e TV private, dei podcast e di alcuni programmi su Fox News, la libertà di espressione si applica solo alla sinistra: ai suoi media, ai suoi torbidi messaggi ideologici, alla teppa che agisce nelle strade. Alcune voci note di conservatori restano attive; altre vengono censurate. Poco contestato è l’attivismo di ONG finanziate dai potentati globalisti (Soros è il nome più noto, ma non l’unico) e anche da persone celebri nel mondo dello spettacolo o dello sport: ONG che pagano la cauzione per tirar fuori di prigione i teppisti arrestati nelle sommosse. Poco contestata è la vile pratica di grandi società (Nike, Target, Goodyear) di versare milioni di dollari a BLM (Black Lives Matter) senza curarsi dell’uso che viene fatto di quel denaro e senza cambiare linea anche quando gli attivisti di BLM devastano i loro negozi nelle città. Impunita è la cospirazione anti-Trump della burocrazia (alla Giustizia, agli Esteri e altrove), i cui privilegi sono legati al potere Democratico.

A Minneapolis la teppa ha iniziato a bruciare i libri: ha cominciato con le Bibbie sottratte alle chiese. La polizia della città, privata di fondi e di programmi, ha dato istruzioni su come comportarsi ai cittadini aggrediti nelle proprie auto fermate da criminali (“Siate pronti a consegnare il portafogli”, “Consegnate il cellulare”, “Evitate di fare resistenza”). Il primo dovere di un governo è quello di difendere i cittadini dalle aggressioni, e tale dovere è tradito dal potere Democratico che ha occupato città come Minneapolis. Non è Trump che governa città dissestate da un pauroso collasso sociale. Sono i Democratici. Essi non richiedono, e anzi cercano di impedire, un intervento federale con la National Guard. Ma credo che quell’intervento ci dovrà essere, per debellare l’insurrezione. L’America è sotto assedio. A New York, a Los Angeles, a Baltimora, i sindaci Democratici vuotano le prigioni in nome del pericolo di contagio per la pandemia, e restituiscono alla strada migliaia di criminali. A Chicago il procuratore Democratico della Cook County cancella le condanne per crimini di strada (25 mila casi in tre anni). A Portland il procuratore Democratico della città impedisce che l’agenzia ICE intervenga per deportare, come la legge richiede, immigrati illegali condannati per reati maggiori. Sindaci e leader Democratici consentono ad Antifa di aggredire cittadini indifesi o di bruciare le macchine dei veterani identificate dagli sticker sui paraurti, e definiscono “proteste” le aggressioni dei teppisti. Sindaci e leader Democratici esprimono consenso per BLM e per le sommosse, per i tumulti con false motivazioni razziali, per gli attacchi alle statue storiche o alle proprietà federali, per il tagliare i fondi alla polizia, per il calunniare la polizia, per tenere le scuole chiuse, per tenere i confini aperti all’immigrazione. Questi sono i modi in cui si distrugge una nazione dall’interno.

Se la coppia Biden-Harris va alla Casa Bianca e se i Democratici escono dalle elezioni con il controllo del Congresso, lo scenario è da incubo. Coperti dai demagoghi e dai portavoce nei media, essi cambieranno la legge elettorale, allargheranno la burocrazia e i sussidi ai loro elettori (sul modello obamiano), occuperanno la Corte Suprema aumentando il numero dei suoi giudici, finiranno di distruggere la società con l’immigrazione, metteranno la censura all’opposizione, e faranno tutto questo in nome della giustizia sociale. Applicheranno il modello California a tutto il paese. Torneranno a consegnare fabbriche, posti di lavoro e supremazia economica e militare alla Cina. E molto d’altro. Vi sarà il tradimento ufficiale della nazione americana. La tesi che una leadership Democratica unirà il paese ha contorni di abbiezione. Non possono unire il paese leader che sostengono BLM, cioè un organismo il cui scopo dichiarato è di dividere e disgregare la società, o leader che non condannano e di fatto consentono le aggressioni criminali di Antifa.

Dietro le sommosse di strada vi è il partito Democratico. Durante la recente Convention Democratica non vi sono state condanne delle violenze di strada, nemmeno nel discorso del candidato alla presidenza, Biden. Anche in Congresso i Democratici non denunciano le sommosse, nemmeno quando gli agenti di polizia sono feriti con lanci di pietre o con raggi laser negli occhi. Quanto accade a Portland, o a Seattle, o a New York, è testimoniato dai cellulari di privati cittadini. Tranne che alcuni programmi di Fox News, le reti TV non trasmettono le immagini delle sommosse, né commentano ciò che accade in quelle città. La risposta di sindaci e politici Democratici è di “ripensare” la polizia, cioè sostituire gli agenti con assistenti sociali. Il potere Democratico ricava vantaggi da una conflittualità sociale le cui cause sono falsificate dai media. I Democratici, e al vertice la coppia Biden-Harris, non possono chiedere il consenso in nome della verità, né dell’integrità nazionale. Devono mentire.

Le elezioni del novembre 2020 sono una questione di vita o di morte per la nazione americana e di conseguenza per ciò che si definisce la civiltà occidentale. Nel migliore dei mondi Trump dovrebbe vincere con una valanga di voti. La scelta non è mai stata così chiara. I Democratici dovrebbero scendere dal 50 al 25% in Congresso. Il partito di Antifa e di BLM dovrebbe incontrare una devastante risposta. I suoi leader, e i suoi peggiori governatori e sindaci, dovrebbero essere cacciati. I Democratici dovrebbero perdere il controllo di Minneapolis, di Seattle, di Portland, di Atlanta, di Austin e di altre città. Il loro potere di monopolio in California dovrebbe essere intaccato, mettendo le premesse per una rinascita del grande Stato. Intaccato anche il loro monopolio a New York, a Chicago, a Boston, a Filadelfia. Ma non viviamo nel migliore dei mondi. Coloro che consentono e celebrano tutti gli orrori che da tre mesi devastano le città americane; coloro che usano la pandemia e le sue conseguenze economiche come uno strumento per confondere l’opinione pubblica e attaccare Trump;  coloro che per quattro anni hanno messo in atto un colpo di stato, in varie forme, contro Trump; coloro che vogliono le frodi elettorali, la confusione nel dopo-elezioni e la distruzione del sistema costituzionale di voto per rimuovere Trump dalla presidenza; costoro potrebbero non essere puniti da una società disorientata e viziata dal welfare. E se i Democratici controllano il Congresso, anche una conferma di Trump non sarebbe altro che un argine al potere Democratico e a politiche distruttive.

Mark Levin dice che la scelta nelle elezioni è tra libertà e tirannia. Dio voglia, e il destino della Storia voglia, che non sia troppo tardi per una scelta di verità. Per quanto riguarda il sistema di voto, come ho detto le elezioni sono gestite dalle autorità locali, pur sulla base di regole federali. La decisione sulle modalità del voto è presa dagli Stati, e spesso è delegata a città e contee. Ciò significa che per il presidente è difficile opporsi alla scelta del voto per posta. Non è una scelta del presidente, e nemmeno del Congresso. Ma almeno le modalità orientate alla frode, come il voto agli immigrati illegali, i tempi allungati del voto postale, la raccolta dei voti, l’assenza di correzione di registri elettorali fitti di nomi che non hanno diritto al voto, devono essere limitate da Trump e dal GOP. Agendo ai limiti delle facoltà costituzionali del presidente, uno strumento che mi sembra di necessità assoluta è un ordine esecutivo presidenziale che imponga l’identificazione di chi vota in nome della sicurezza nazionale. Città e Stati governati dai Democratici non lo accetteranno, ma i loro cittadini (molti dei quali, peraltro, in fuga da quelle città, purtroppo portandosi dietro l’ideologia liberal e il voto per i Democratici) avranno un motivo in più per comprendere che chi sceglie l’inferno, merita l’inferno.

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