USA, dalla pandemia alla tirannia
Pubblichiamo un intervento del professor Claudio Taddei, politologo, scrittore e collaboratore di diversi think thank, esperto di cose americane.
Negli USA, nel dopo-pandemia e nel dopo-tumulti di strada, lo scenario cercato da chi si oppone a Trump è quello di un’economia danneggiata e di una società conflittuale. La chiusura di attività conseguente alla pandemia e le sommosse di strada non hanno portato danni a tutti. Non li hanno portati agli impiegati federali, alla burocrazia (che per lo più vota Democratico), alla finanza che risiede nelle grandi città sulle due coste, alle decine di milioni di persone che ricevono sussidi federali, alle reti TV e ai maggiori media. Anzi, le leggi di spesa per aiuti sociali conseguenti alla pandemia hanno esteso i sussidi a milioni di immigrati illegali. In giugno, quando l’epidemia si attenua, i Democratici, che controllano i governi locali di grandi Stati ed hanno la maggioranza alla Camera, chiedono ulteriori sussidi per i loro elettori, mentre tengono chiuse, quando vi riescono, le attività economiche. In giugno, quando le sommosse di strada perdono spinta, i peggiori sindaci della nazione, tutti Democratici (a New York, a Washington, a Chicago, a Minneapolis, a St. Louis e altrove), chiedono l’aiuto federale, dunque di Trump, per riparare le città di cui essi hanno consentito la devastazione ad opera della teppa: l’hanno consentita ordinando alla polizia di non intervenire. Nel disegno dei leader Democratici il dissesto deve durare fino alle elezioni di novembre. In seguito i loro economisti e i governatori di Stati in bancarotta chiederanno al governo federale di rimediare ai danni facendo stampare denaro alla Federal Reserve. Il che, oltre ad essere un turpe progetto politico, è uno schema economico distruttivo. Non è il governo che può restaurare la prosperità. Sono gli imprenditori e chi accetta il rischio del proprio lavoro a poterlo fare. Non è l’assistenza pubblica che genera stabilità sociale e benessere, ma sono il lavoro, la produzione e gli investimenti. Lo capiscono, in America, le piccole città e le contee rurali, che ancora praticano i valori tradizionali e per lo più votano Repubblicano. Lo capiscono gli artigiani e le piccole imprese, colpite dalla chiusura economica, che quelle imprese temono più del virus di Wuhan.
I politici Democratici e i loro media (e con pronto riflesso condizionato i media italiani più diffusi) vogliono convincere il pubblico che i saccheggi e gli incendi attuati dalla canaglia nelle città americane, o che i milioni di disoccupati e la temporanea recessione, siano colpa di Trump. La realtà non falsificata è che Trump ha fatto il possibile per contenere le sommosse, pur muovendosi con moderazione, o che ha fatto il possibile per fermare l’epidemia nelle fasi iniziali e per combatterla quando si è diffusa. La realtà non falsificata è che Trump aveva contribuito a costruire una potente e generosa economia, dopo la stagnazione degli anni di Obama: l’aveva costruita in tre anni, e il virus cinese, cioè la decisione del governo cinese di consentirne la diffusione fuori dai confini nazionali, ha abbattuto quell’economia in 60 giorni, a causa del lockdown. Già a metà aprile, quando il numero degli americani senza lavoro si avvicina ai 40 milioni, Trump parla di riaprire l’attività economica, colpita da una recessione analoga, per i numeri, a quella degli anni Trenta del Novecento. Serviti dalla grancassa dei media, i Democratici si oppongono e diffondono scenari di panico. Essi contano di ricavare dal lockdown, che a metà giugno è in parte ancora in vigore in Stati da loro controllati, e dalle sommosse di strada, ciò che né la frode dell’indagine Mueller né il falso impeachment ottennero. Qualche delusione essi ricavano da un’iniziale ripresa dell’economia che si manifesta a fine maggio, sotto la spinta del Midwest e del Texas, benché grandi Stati (la California anzitutto) siano fermi.
Con i tumulti di strada, i saccheggi e gli incendi, la diffamazione della polizia e l’impostura dell’inginocchiarsi in nome di un falso storico e ideologico, l’attacco passa dall’economia alla società. Dal 26 maggio in poi, decine di edifici federali vengono danneggiati, statue vengono abbattute, luoghi storici violati, 600 agenti di polizia feriti, centinaia di negozi devastati, cittadini indifesi percossi. Per giorni la canaglia controlla la strada nelle più grandi città americane. Solo lentamente alla polizia è consentito di tornare in attività, in qualche caso con il soccorso della National Guard. A Seattle il gruppo di pretesa difesa dei neri Black Lives Matter, che è un ben finanziato organismo antisemita e antiamericano, controlla dapprima un intero quartiere nel centro città (Capitol Hill), dove la polizia non entra, poi il Municipio. A Minneapolis il governo cittadino decide di ritirare dalle strade la polizia e sostituirla con “servizi sociali”. A New York il sindaco prospetta soluzioni analoghe. Nonostante queste e altre realtà di distruzione della società, i Democratici e i media più diffusi diffondono la convinzione che le “proteste” siano minacciate dall’uso della forza. In realtà il ritiro della polizia e le concessioni dei governi locali significano che della forza non vi è nemmeno un uso moderato. Quanto a Trump, nessun presidente è intervenuto meno di lui davanti a violente sommosse, perché nessun presidente era assediato in misura analoga dalle calunnie riguardo alle proprie azioni. In Europa i maggiori media riprendono la tesi dei media americani (si veda, tra altre cose, la recente, oscena copertina del tedesco Der Spiegel, con il disegno di un Trump nell’Oval Office con un cerino in mano mentre fuori dalla finestra infuria un incendio).
La sinistra americana chiede di tagliare i fondi alla polizia e in alcune città di smobilitare la polizia. Il solo fatto che tali richieste siano proponibili e raccolgano consensi, o che in proposito si organizzino marce affollate, indica la malattia e il degrado della società. Questa è la malattia sistemica della società americana, non il razzismo, che non c’è. Come ovunque, ci sono episodi di oppressione e di ingiustizia. Ci sono cattivi poliziotti, come ci sono cattivi medici o cattivi sacerdoti. Ma di certo, nel paese che ha eletto presidente un nero, non c’è un razzismo sistemico. In un paese in cui la polizia arresta circa mezzo milione di persone l’anno per crimini violenti, è tempo di aumentare i fondi per la polizia, non di ridurli. Si afferma che per molti agenti è necessario un migliore addestramento, e innovazioni concordate con i vertici della polizia vengono portate dall’ordine esecutivo firmato da Trump a metà giugno: più di questo Trump non può fare, perché la polizia è soggetta ai poteri locali, in un paese con situazioni di sicurezza molto diverse, che rendono inadeguate le regole standard.
Ma se un avvocato di Los Angeles può sollecitare sui social a “uccidere agenti di polizia” e offrire la difesa gratis a chi esegue, vuol dire che la società e la comunicazione sono in preda al degrado. Voci credibili affermano che i poliziotti hanno meno garanzie dei criminali e che devono temere gli avvocati d’assalto. L’ideologia antiamericana, il globalismo ben finanziato e l’immigrazionismo, le teorie permissive e il rigurgito di terzomondismo, dunque i conduttori della guerra a Trump, vogliono smobilitare la polizia perché vogliono smobilitare la nazione. La cosa terrificante è che metà dell’America dia il voto al partito con tale programma politico. Ciò non sarebbe possibile se la società non fosse condizionata da un’immigrazione insensata e non selezionata. Non sarebbe possibile se le fondamenta della società non fossero indebolite dalla gestione a fini politici della comunicazione e dello spettacolo, e da un’istruzione scolastica e universitaria fuorviante. Se Black Lives Matter e Antifa, che è un gruppo di terrorismo interno, rimangono il braccio esecutivo del partito Democratico, presto si inizierà a bruciare i libri, come già avviene in senso figurato da molti anni.
I governi locali che applicano politiche di sinistra estrema lavorano per la distruzione dell’America. Sindaci e governatori, insieme a giudici e procuratori di Stato, assecondano i facinorosi. A Seattle la polizia si è ritirata su disposizione del sindaco. I poliziotti vengono insultati e attaccati nelle strade di New York, di Baltimora, di Atlanta e di altre città con alta intensità di crimini. E che cosa chiedono i politici Democratici? Legare le mani alla polizia, toglierle i fondi, cambiarne gli incarichi in modo tale che non intervenga a seguito di chiamate per alcune categorie di crimini; e invece aumentare il numero degli assistenti sociali, in ossequio a un miserabile sociologismo. E che cosa può fare Trump? Poco. Può inviare la National Guard, forzando le regole del federalismo, ed esponendosi a disinformazione pericolosa in un anno elettorale. Eppure i saccheggi, gli incendi, le aggressioni a cui abbiamo assistito per settimane, tra fine maggio e inizio giugno, non sono tollerabili. Le decisioni erano difficili. Le città hanno eletto indegni politici di sinistra, e il delitto è loro. Ma gli USA non possono divenire il territorio dell’impunità.
In un secondo mandato, che ci auguriamo, Trump dovrà usare tutto il potere che detiene in materia di immigrazione; in materia di nomine, a iniziare dall’FBI; e in materia di ordine pubblico. I leader Repubblicani devono combattere e imporsi a chi tra loro, soprattutto in Senato, lo impedisce. L’identificazione fra Trump e il pensiero conservatore è sempre stata imperfetta. Ma in un momento di crisi estrema il GOP deve fare quadrato intorno al presidente. Trump ha portato alla luce quanto inadeguata sia quella parte del GOP che vuole il lavoro straniero a basso costo e i visti facili, o che non si preoccupa di lasciare aperto il confine con il Messico ma è disponibile a mandare i figli migliori dell’America a difendere i confini di altre nazioni. O quanto inadeguata sia quella parte del GOP che, dalla Camera di Commercio a Wall Street al Congresso, non vuole cambiare la politica di concessioni alla Cina, o che non vuole parlare di un “virus di Wuhan”, o che è disposta a lasciare alla Cina il controllo del Mare della Cina del Sud. In America non sono soltanto Biden, o Obama, o il pubblicista Thomas Friedman, ad acconsentire agli obiettivi del regime cinese. Vi sono anche alcuni senatori del GOP, o gli industriali che vengono convocati a Pechino per ricevere istruzioni sui modi per non opporsi ai furti cinesi di tecnologia. Vi sono i senatori e gli industriali che fingono di non vedere l’attuale propaganda anti-Trump gestita dal governo cinese sui media americani, in violazione della legge elettorale: un’invadenza che solo il Congresso può fermare.
I governi locali Democratici e la sinistra americana usano le autonomie costituzionali a scopi eversivi. In questo modo da cattive ideologie giungono sfide inattese al federalismo americano. Durante la pandemia Trump non ha messo in questione il sistema federale americano e ha lasciato autonomia ai governatori di Stato, anche a quelli che usavano la pandemia ai loro scopi. Se Trump avesse centralizzato il potere e nazionalizzato le industrie (come nel momento critico i Democratici chiedevano), uno scenario possibile sarebbe stato quello della Depressione degli anni Trenta, durata 10 anni. Dal 1929 al 1938, l’economia USA fu in rovina. Il New Deal (“nuovo corso”) di Franklin Roosevelt non riportò la crescita economica, né la fiducia del pubblico. Ancora nel 1938, l’economia era in contrazione del 3%. Soltanto i timori legati alla guerra fecero tornare la potenza industriale, coinvolgendo a fondo il pubblico. Ma si trattava di una società molto più unita e forte. Erano impensabili le lesioni, l’odio, l’inciviltà, la confusione di valori, i falsi pregiudizi e le false teorie sociali e storiche che hanno reso possibili le sommosse di strada di inizio estate 2020. Oggi gli USA hanno un nemico interno: in termini politici, quel nemico è il partito Democratico nei suoi leader nazionali e locali. Costoro disorientano la società con l’immigrazione e con gli eccessi del welfare, rendono dipendenti i loro elettori, indeboliscono la volontà della nazione, e adesso garantiscono le azioni della teppa che deturpa e abbatte monumenti storici. I Democratici controllano cruciali centri di potere, dai media all’istruzione al mondo della cultura di massa, e dunque resistere è difficile. Persino l’estremismo di Black Lives Matter trova accoglienza: politici, giornalisti, e molte società, lo temono. Gruppi molto presenti sui social media, come Color of Change che è finanziato da George Soros, promuovono i messaggi di Black Lives Matter, che ha tra le sue richieste di chiudere molte prigioni e rifare il processo per tutti i neri detenuti. In molti luoghi di lavoro, scrive il sito The Federalist, “se non sostieni Black Lives Matter, vieni licenziato”. Anche grandi società si adeguano al cedimento. Le famiglie ricche di ebrei americani ricevono da Black Lives Matter minacce e intimidazioni; ma anche quando esse vedono che tre quarti dei negozi di ebrei a Los Angeles sono distrutti dalle sommosse, o vedono le sinagoghe deturpate e attaccate in molte città, esse rimangono in maggioranza anti-Trump e continuano a finanziare i Democratici. Come accadeva quando Obama parlava e agiva contro il governo Netanyahu. E possiamo chiederci se l’unica causa sia il fatto che il legame tra Israele e i ricchi ebrei americani è esile e non implica lealtà stabilite.
Guardando dall’Europa, si può non comprendere la profondità del tradimento messo in atto dalle istituzioni controllate dalla sinistra americana. Le menzogne sugli USA come nazione “fondata” sulla schiavitù e gli attacchi distruttivi all’immagine della nazione e ai valori che la fondarono, sono materia di insegnamento scolastico in scuole e università americane. Da quattro anni le calunnie verso Trump si sovrappongono a quelle che definiscono gli USA, e adesso la polizia, “sistemicamente razzista”. Da oltre tre decenni la sinistra ha occupato l’istruzione, come negli anni di Obama ha occupato i vertici della Giustizia, dell’FBI e della CIA, fino a impiegarli per il complotto che ha cercato di destituire Trump. Il messaggio che arriva dagli ideologi della sinistra e che arriva, con le sommosse, dai suoi attivisti di strada, è che non vi sono radici da difendere, non vi è una storia di comuni tragedie e di condivisi obiettivi: una storia su cui fondare la comprensione del presente. Il messaggio è globalista: non ci sono confini da difendere, non ci sono immigrati illegali, siamo tutti cittadini del mondo. Nel 2020 un’elezione separa gli USA dall’impossibilità di cambiare corso: dal punto di non ritorno. Siamo nelle migliori tradizioni dell’americana lotta del bene contro il male.
Dalle regioni del male arriva l’impostura su un “razzismo sistemico” verso i neri. Come afferma Shelby Steele, leader nero del movimento per i diritti civili fin dagli anni Sessanta, “la verità è che i neri non sono mai stati liberi e benestanti come oggi. I traguardi ottenuti dai neri negli USA non erano possibili in alcun altro paese”. Una dose di impostura vi è anche, da parte dei Democratici, nel presentarsi come i difensori dei neri. Prima della Guerra Civile il partito Democratico sostenne il permanere della schiavitù dei neri, contro il presidente Repubblicano Lincoln. Dopo la Guerra Civile, nel Sud il Ku Klux Klan fu vicino al partito Democratico. I primi 23 Congressmen neri furono Repubblicani. Lo speaker Democratico della Camera negli anni Ottanta, Byrd, era stato membro del Klan. Negli anni Dieci del Novecento il presidente Democratico Wilson cancellò l’integrazione tra bianchi e neri negli impieghi civili e nelle forze armate, rovesciando i risultati di decenni. Negli anni Cinquanta l’opposizione alla fine della segregazione venne dai Democratici. Fu il presidente Repubblicano Eisenhower a mandare nel 1957 l’Esercito in Arkansas per garantire agli studenti neri l’accesso a scuole non segregate. Ed è un presidente Repubblicano, Trump, ad aver portato a minimi storici la mancanza di lavoro tra i neri, ad aver bonificato con le “zone di opportunità” interi quartieri neri delle grandi città, procurando lavoro e attività sportive.
L’attuale propaganda della sinistra, con le false accuse di razzismo, non ha relazione con i diritti civili dei neri, ma solo con il progetto di dividere il paese, fomentare l’odio e intaccare i pilastri della società. Il concetto stesso di “white privilege” è una truffa. Si dovrebbe parlare di un “black privilege”: di già, da oltre due decenni, i neri hanno vantaggi nell’accesso ai posti di lavoro e alle università (ignorando i criteri di merito), nell’usufruire dei sussidi di Medicaid (la sanità gratuita) e nel welfare in genere. Adesso, con le sommosse di inizio estate 2020, la teppa, tra cui molti neri, può anche saccheggiare e incendiare senza essere punita. Ai diritti già acquisiti, si aggiunge il diritto al saccheggio e all’attacco dei poliziotti. Nelle ultime tre settimane mi è capitato di vedere decine di video, spesso registrati da telecamere fisse, in cui teppisti neri, da soli o in piccoli gruppi, attaccano e percuotono cittadini bianchi, sia anziani, sia giovani, sia donne con bambini. Alcuni attacchi sembrano improvvisati (su un marciapiede di città, in un giardino pubblico, in una corsia di supermercato), altri tra persone che si conoscono. Non posso dire che tutti i gesti siano rimasti impuniti, ma temo che molti lo siano. Come impuniti sono rimasti, e archiviati come “proteste”, decine di incendi di auto della polizia (in un caso, in cui una donna bianca incendiaria era stata identificata, subito sono intervenuti gli avvocati a schermarla dall’arresto).
Quali sono le lagnanze messe avanti dagli ideologi Democratici in pretesa difesa dei neri? Che la scuola primaria reca svantaggio agli scolari neri? Sono i Democratici (e fu Obama) a imporre nelle città che essi controllano la “non-scelta” per la scuola, cioè l’obbligo di andare nelle scuole statali, anche se scadenti, perché così vogliono i sindacati degli insegnanti e del pubblico impiego, che sono elettori e finanziatori dei Democratici. Oppure la lagnanza riguardo alle mancate uguaglianze di reddito? Ma uguaglianza significa giustizia uguale per tutti davanti alla legge, e non altro; e quanto al reddito, personaggi dello sport e dello spettacolo neri sono tra i più pagati, vivono in ville lussuose e non nei quartieri neri delle città, e sono protetti da quella polizia i cui fondi chiedono di revocare. L’abbietta ipocrisia di quei personaggi tracima oggi con il sostegno all’abbattimento, nutrito di odio e di ignoranza, di statue storiche: persino George Washington e Thomas Jefferson, che sono tra i padri della nazione, sono oggetto dell’indegna iconoclastia; lo sono il generale della Confederazione del Sud Robert Lee, ma anche il generale dell’Unione (e poi presidente) Ulysses Grant. E poiché l’effigie di Grant è riprodotta sulle banconote da 50 dollari, mi aspetto che chi abbatte le sue statue bruci i propri biglietti da 50. Intanto, mentre si rovesciano statue di Cristoforo Colombo e dei missionari cristiani, l’italiano e squalificato sindaco di New York, De Blasio, annuncia che verrà rimossa dall’ingresso del Museo di Storia Nazionale la statua di Theodore Roosevelt, uno dei maggiori presidenti americani, progressista e ambientalista. Lo sconforto è grande.
Le accuse più velenose e più infondate sono sempre le più facili da ripetere. Chi dirige la guerra a Trump cerca di destituirlo montando una trappola dopo l’altra. Una parte non piccola del pubblico è convinta che egli sia responsabile per le morti conseguenti all’epidemia del virus di Wuhan, o per il poliziotto killer di Minneapolis, e cosi via. Il discorso pubblico è controllato dai media più diffusi e dal potere che li gestisce. I media tengono nascosto che a Las Vegas un poliziotto colpito alla testa da un teppista, durante le recenti sommosse, è paralizzato. Però se in una notte di Atlanta un nero (come accade a metà giugno) viene fermato dalla polizia in un parcheggio, resiste all’arresto, si getta addosso a un poliziotto, lo trascina a terra, gli sottrae una pistola taser, fugge, mentre corre si volta verso il poliziotto che lo insegue e gli spara (come documentato dalla telecamera del parcheggio), e se il poliziotto spara a quel nero e lo uccide, se ciò avviene, non solo gli incendi e le violenze che ne seguono sono definite “proteste”, ma gli attacchi alla polizia di nuovo coinvolgono Trump. Eppure ad Atlanta il sindaco, il capo della polizia, il governo locale, sono Democratici (l’ultimo sindaco Repubblicano risale all’Ottocento). Trump non ha niente a che fare con la polizia di Atlanta (o di Minneapolis). E quanto a ciò che è accaduto nel parcheggio, il poliziotto viene subito licenziato, ma sul fatto che egli abbia commesso un omicidio di cui essere punito vi sono pareri discordanti (tra altre cose, la legge in Georgia, di cui Atlanta è la capitale, considera il taser “un’arma letale”), mentre a stento viene alla luce che il nero ucciso aveva ripetuti e gravi precedenti penali. In ogni caso la risposta non è denigrare la polizia e impedirle di agire. Gli agenti rispondono come possono: ad Atlanta una gran parte non va al lavoro per 10 giorni; in altre città, tra cui Washington, fino al 50% degli agenti si dimette; a New York la polizia annuncia uno sciopero senza precedenti. Vi è un’infamia, oltre che un grave disservizio, in quanto sta accadendo in alcuni Stati, ed è che la polizia sia diventata il nemico, che troppi giovani la vedano in questo modo, e che dunque vi saranno meno americani che vogliono entrare in polizia. La lente distorta dell’ideologia di sinistra e antiamericana devasta le menti e si diffonde con la contagiosità di un virus.
Persino i nomi dei Forti militari sono divenuti una questione di “razzismo”. Ad alcuni di quei Forti si diede, un secolo e mezzo fa, il nome di generali confederati che combatterono la Guerra Civile. Lo si fece con la volontà di riportare unità nel paese. Con il passare del tempo quei Forti si sono identificati con le truppe che vi si addestrano e da cui esse partono per combattere oltre oceano guerre decise dai politici di Washington. Fort Bragg, per esempio, è sinonimo delle Divisioni aviotrasportate che vi hanno sede. Leggendo il nome Fort Bragg, il soldato, o il viaggiatore, non pensa alla Confederazione sudista. Ma anche la giustificata decisione di Trump di non cancellare i nomi storici dei Forti viene presentata come prova del suo essere “razzista” (cosa che Trump non è mai stato, avendo piuttosto, quando era un imprenditore, disponibilità evidenti verso l’integrazione razziale).
La già paurosa realtà delle sommosse di strada è aggravata dalle sconcertanti dichiarazioni di generali usciti dal governo (Mattis, Kelly), di altri generali in pensione (Powell, McRaven), del ministro della Difesa Esper, del capo delle Forze Armate Milley, che indicano la non disponibilità dei militari a intervenire per mettere fine alle sommosse. Quando non derivano da una polemica anti-Trump (Mattis, Powell), si potrebbe affermare che le dichiarazioni si attengono al tradizionale non-interventismo dei militari USA nelle questioni civili. In questo caso, però, esse appaiono molto fuori luogo, perché rendono difficile al presidente usare forze militari, inclusa la National Guard. La legge (Insurrection Act, 1807) prevede che il presidente utilizzi i militari per spegnere sommosse civili con carattere di insurrezione e di violenza, e molti presidenti lo hanno fatto senza essere contestati. I pregiudizi collettivi e i timori di assumere posizioni che verrebbero attaccate dai media e da gruppi aggressivi come Black Lives Matter stanno distruggendo il tessuto istituzionale americano. Alle deplorevoli dichiarazioni di generali e vertici militari si aggiunge, nel giugno 2020, la brutta decisione della Corte Suprema di non accogliere la richiesta del governo Trump di deliberare sull’indecente sentenza del 9° Circuito Giudiziario: sentenza (ottobre 2019) che protegge le città-santuario in California e le sottrae alla legge. Alla decisione della Corte Suprema – resa possibile da un giudice-capo Roberts ancora una volta schierato a sinistra e da un pauroso sbandamento del giudice Gorsuch, e contrastata invece dal grande giudice nero Thomas –, il mondo dell’immigrazionismo e le città-santuario rispondono con esultanza. L’America profonda, l’America vera, rispondono con sgomento.
Con uguale sgomento l’America profonda ha assistito a sommosse e saccheggi che la polizia, per ordine dei governi locali Democratici, non poteva fermare. O assiste a quanto avviene in una delle più attraenti (un tempo) città americane, Seattle, dove la canaglia guidata da Black Lives Matter occupa il quartiere di Capitol Hill e lo dichiara “libero dalla polizia”. Il sindaco, una donna bianca eccitata dall’ideologia, parla dell’occupazione come di una “stagione dei fiori”, benché il capo della polizia cittadina, una donna nera, riferisca di “rapine, violenze e soprusi ai danni degli abitanti” nel quartiere occupato. Il governatore (Democratico) dello Stato non muove un dito per fermare quanto accade. Le due senatrici (Democratiche) dello Stato non pronunciano una parola di condanna. Sindaco e governatore dicono a Trump: attento, non usare la National Guard, solo noi possiamo farlo (“L’uso della forza militare sarebbe illegale”). Il che corrisponde a un primo livello del dettato costituzionale, superabile nel caso di un’emergenza come l’attuale. Ma non superabili sono l’ostilità dei media e la confusione dell’opinione pubblica. Estate 2020: non è la prima volta che gli USA sono scossi da sommosse. Ve ne furono già a fine Ottocento, ed altre, tra cui i riots di Los Angeles nel 1992. Ma era meno difficile estinguerle, perché la maggior parte degli americani amava l’America. Cambiando la società, sono cambiate le fedeltà. Quando negli anni Settanta in California Ronald Reagan fu eletto per due volte governatore, i bianchi in California erano il 79% della popolazione; oggi sono il 36%. Da Reagan si è passati al governatore Newsom, che approva i murales di Black Lives Matter sui muri del parlamento di Stato; o al sindaco di Los Angeles Garcetti, che vuole devolvere i fondi per la polizia ai servizi sociali “per le comunità di neri e di immigrati”. Il cambio di popolazione, portato da un’immigrazione senza freni, ha modificato le fedeltà. Dall’America profonda arrivano voci che affermano: non riconosco il mio paese. Ciò accade perché, almeno nelle grandi realtà urbane, non è più il loro paese. Quelle realtà sono un coacervo di immigrati, per lo più da paesi dell’ex terzo mondo, fedeli in prima istanza a chi procura loro il welfare e ne promette altro: cioè ai governi locali Democratici.
In quello che è uno schema elettorale, la burocrazia del potere Democratico oggi incoraggia il rovesciamento violento dell’ordine in molte città, e lo fa con il silenzio o con un dichiarato sostegno, anche quando si tratta di approvare le azioni della teppa che abbatte statue e vestigia del passato nazionale. Lo schema è servito dalla disonestà dei media più diffusi e dalla gestione dei social media, dove la censura e le aggressioni a Trump e al pensiero conservatore sono aumentate negli ultimi 6-10 mesi. I risultati sono visibili nei sondaggi, qualunque importanza noi vogliamo darvi (i sondaggi possono essere a loro volta orientati, ma non facciamo l’errore di dire: era così anche nel 2016, e ignorare il pericolo). Il governatore dello Stato di New York Cuomo, che nella pandemia è stato salvato dagli aiuti inviati da Trump, ha nei sondaggi l’80% dei consensi; il sindaco di New York (città fuori controllo in quanto a criminalità, come non accadeva da inizio anni Novanta), De Blasio, che svilisce la polizia e mette fuori dal carcere gli autori di crimini, ha il 95% del consenso tra i neri. E Trump non è in vantaggio per le elezioni di novembre, cioè non è in vantaggio in quei 5 o 6 stati che possono ridargli la presidenza, dal momento che il voto è bloccato in favore dei Democratici nei popolosi Stati delle due coste.
La sconfitta di Trump e dei Repubblicani, con i Democratici che riprendono la presidenza, conservano la maggioranza alla Camera e ottengono quella al Senato, sarebbe un evento catastrofico. Una catastrofe per la nazione americana e per la civiltà occidentale. Sarebbe la fine e la rovina del paese chiamato Stati Uniti. La democrazia può diventare teppa-crazia. Diventare tirannia. Un’America in cui il partito Democratico, che si è consegnato alle fazioni più estremiste e antiamericane, controlla di nuovo presidenza e Congresso, sarebbe l’America di Black Lives Matter e di Antifa, di George Soros e della finanza globalista, di Microsoft e di Google, di Obama e della giustizia distorta, o del cedimento al governo cinese. Sarebbe un paese in rapido e giustificato disfacimento. In quel paese rimarrebbero un 35-40% di americani onesti, che lavorano e tengono un’arma in casa. Una nuova guerra civile diverrebbe una minaccia. A inizio estate 2020 la minaccia è avvertibile. Quando osservatori esasperati dagli attacchi ai simboli storici della nazione suggeriscono la presenza di milizie armate per difendere i monumenti, dal momento che i governi locali mettono il veto all’utilizzo della National Guard; o quando quegli osservatori chiedono di replicare agli attacchi contestando le statue degli idoli della sinistra (Woodrow Wilson, Franklin Roosevelt, tra le statue in Congresso quella di Byrd, l’ex avvocato del Klan), mi sembra che si delinei un possibile adeguarsi alla guerra civile che la sinistra conduce da quattro anni.
Non si passa dalla libertà alla tirannia nel corso di una notte. Vi si passa in anni e decenni di ideologie corrotte e che corrompono le menti. O in decenni di confini aperti che cambiano il tessuto della nazione. L’attuale partito Democratico, che ha usato l’FBI, la CIA e le Commissioni Giustizia e Intelligence della Camera per abbattere un presidente liberamente eletto, è disponibile alla distruzione del paese. Se non è tirannia la censura delle opinioni, la crescente paura di esprimerle, l’invadenza di giudici che infrangono la giustizia, che cosa lo è? Come afferma Newt Gingrich, nelle elezioni del 2020 “la scelta è tra Trump e un incubo”.
Claudio Taddei