Utopia, distopia, retrotopia: il futuro è alle nostre spalle?
Nel suo testamento teorico Zygmunt Bauman analizza cause ed effetti dell’epidemia di nostalgia che attraversa il mondo
“Un’epidemia di nostalgia attraversa il mondo”, scrive lo scomparso Zygmunt Bauman nel libro che è quasi una sorta di testamento (“Retrotopia”, Ed. Laterza, 2017) richiamando le parole di Svetlana Boym – docente di letterature slave e comparate ad Harvard – che la definisce “un sentimento di perdita e spaesamento, ma anche una storia d’amore con la propria fantasia”. Nostalgia che per il filosofo polacco fonda la dimensione della “retrotopia”, ossia uno stato d’animo e insieme una deriva intellettuale che, a fronte dell’infrangersi di ogni utopia possibile contro le propaggini rocciose del reale, guardano a un passato mitizzato, reinterpretato, plasmato a misura del proprio desiderio. Ciò accade perché nel mare magnum della “modernità liquida” indotta dalla globalizzazione – segnala Bauman – “è arduo trovare e/o costruire zone di confort stabili per l’essere individuale”. Di qui lo sguardo rivolto all’indietro, catturato da una magnetica attrazione che impedisce di credere in un domani migliore. Caduta l’utopia, sfociata in distopia – ossia in un avvenire negativo e non desiderabile – il futuro non viene più visto come il luogo della liberazione, della comunione felice fra individuo e collettività, del sogno realizzato. E allora, il passato, condito dalla tradizione (spesso la stratificazione temporale delle idee sbagliate prodotte da una comunità nazionale, etnica, religiosa, politica, ecc.), diviene idealmente la trincea difendibile dell’esistenza presente. Un’esistenza sempre più fragile, esposta all’incertezza quotidiana, privata di punti di riferimento solidi, sottoposta ai “fromboli di un destino imprevedibile”, laddove la decantata “liquidità” è resa scivolosa e talora malsana. Di conseguenza, lacerato fra bisogno di appartenenza e desiderio di autonomia, l’individuo sperimenta l’amaro sapore del disorientamento e dello smarrimento, corredato dalla confusione identitaria, non riconoscendosi più in narrazioni affidabili in grado di riconnettere passato-presente-futuro dentro un’ottica di progresso e di miglioramento della qualità sociale complessiva. Si è infatti consumato lo iato fra dimensione individuale e dimensione collettiva. In altre parole, oggi chi crede più che si possa cambiare la società cambiando in positivo anche la propria vita? Le utopie ottocentesche e novecentesche, che promettevano il “Sol dell’Avvenire”, si basano proprio su questa credenza, tramutasi talora in fanatico fideismo. Invece, dice Bauman, ormai si è imposto un paradigma inossidabile Utopia-Distopia-Retrotopia. Siamo entrati in una fase nuova: il ritorno di un’età Hobbesiana senza la garanzia del Leviatano, il Moloch capace di temperare “l’homo homini lupus” all’interno di un’ottica di controllo autoritario. Ricordiamo, però, che al tempo del filosofo britannico il pianeta era abitato da circa 400 milioni di abitanti, oggi siamo a 7 mld e mezzo e galoppiamo verso il baratro degli 8 e dei 9 miliardi. Dunque, quale Leviatano, che genere di Governo mondiale, sarebbero attualmente possibili? Possibile, anzi effettivo, è al contrario il consolidamento di quello che Bauman chiama il “ritorno alle tribù”. Una dimensione entropica, segnata dalla separazione fra Potere e Politica, dalla crescita delle disuguaglianze, nella quale la coesione sociale si sgretola facendo prevalere gli interessi brutali di elites, corporazioni, cricche di varia matrice, che operano prevalentemente secondo la logica amico-nemico e si alleano transitoriamente e tatticamente, prescindendo quasi sempre da visioni strategiche di lungo periodo. Insomma, siamo nel labirinto, viviamo un’era del Caos che non ci fa intravedere la luce in fondo al tunnel, non ci indica fecondi percorsi alternativi allo stato presente delle cose. Proponibili, anzi riproponibili, sono soltanto alcune domande cruciali: sussistono le condizioni per rilanciare un’utopia colma di realismo, come si diceva una volta? L’autonomia della politica avrà ancora uno spazio di manovra significativo? La democrazia è condannata a residuare come mero simulacro di un potere autoreferenziale e autoconsistente? Ha senso e chance di successo l’idea che sia possibile ricucire/ricomporre il destino del Noi con quello dell’Io?
Aldo Musci